ITALIA NOSTRA OSSERVA TORINO



La prosa inconfondibile e suasiva di Roberto Gnavi, ci accompagna  lungo le note critiche con cui la Sezione di Torino guarda il nuovo progetto  della città metropolitana. Un itinerario cittadino che ci rivela l'ambiente urbano: i grandi viali con i rischi per la loro integrità, la negletta Cavallerizza,  le rive, superbe, del Po, integre e da preservare, quelle meno rispettate degli altri fiumi che attraversono la città, i parchi storici  e la loro esigenza di manutenzione corretta, quelli più recenti: discutibili e discussi, il verde minore urbano ancora da salvare, le cortine edilizie della città Sabauda, rotte, nella loro integrità dal 900 e poi l'ambiente extraurbano: quello che sale lungo la costa della collina perchè, rispettato e attrezzato, sia il percorso del loisir e, sul lato opposto, la quinta alpina che incornicia la città che si protende nei suoi spazi ancora aperti e liberi, verso l'ovest.
Un percoso critico e attento dove nulla è concesso alle suggestioni architettoniche di questo inizio secolo, e dove la città è recuperata nei suoi valori sedimentati, identitari e riconosciuti.
Alla fine di questo percorso si scoprirà che quell'attenta tutela, con cui ad ogni passo, questa rassegna critica guarda il progetto della città che si vorrebbe cambiare, è anche e sopratutto un richiamo alla città per l'uomo, per i suoi cittadini abitanti, per la loro socialità civile e per il piacere che l'abitarvi e il viverci o anche solo il visitarla, dovrà e potrà offrire.               
 
 
Sezione di Torino
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Proposte per Torino da Italia Nostra




Italia Nostra-Torino sulla tutela dell'ambiente storico e della qualità ambientale.
Alla vigilia di un nuovo capitolo della vita della nostra città, Italia Nostra-Torino ritiene di dover esprimere sue osservazioni, preoccupazioni, proposte.


E' da decenni che dal mondo politico e mediatico alla generalità dei cittadini si
condivide l'allarme per la decadenza economica di Torino, brevemente placato dalle
prospettive apparentemente aperte dalle Olimpiadi del 2006.


Cercando di essere indipendente da posizioni politiche di parte e da mode di pensiero
contingenti, Italia Nostra-Torino propone valutazioni relative al suo ambito di interessi, che
certo non pretendono di offrire ricette complessive per l'economia della città. Hanno però a
che fare anche col constatare da tanti anni una tendenza decisionale e progettuale, che
afferma di affrontare questo allarme, a perseguire obiettivi economici accettando sacrifici
della qualità ambientale e del livello di tutela del patrimonio storico ed estetico, essi stessi
elementi portanti di una visione di lungimiranza economica.
Riteniamo che proprio una vera e non solo proclamata attenzione a questa tutela,
integrata dalla diffusione fra i cittadini della percezione dei valori posseduti, oltre ad
aumentare la qualità della vita e la vivacità culturale della città, favorisca il consolidarsi di
una “immagine” di Torino come luogo dotato di virtù peculiari, ben meritevole per questo di
essere conosciuta e visitata, e con esiti positivi anche per il dinamismo economico.
Quindi, certamente per ragioni morali e culturali, ma anche per far fruttare meglio le
doti di Torino per incoraggiare visitatori ed eventualmente investitori, noi pensiamo che sia
miope una visione di “eventificio”, di luogo che dev'essere punteggiato di scintillanti
invenzioni, possibilmente collegate a qualcuno o qualcosa mediaticamente già ben in
evidenza, archistar o altro.
E' comprensibile, ma infelice, questa enfasi del “fare”, dell'innovazione, dell'inseguire


l'attenzione del mondo esterno, del cercare di potersi dire “capitale” di cose varie, e questo
rincorrere un'ideale volano di “eventi”.
Naturalmente Torino deve mantenere, consolidare e certo se possibile moltiplicare le sue
grandi iniziative culturali, come il Salone del Libro, un vero e proprio arricchimento per la
città e per il paese. Ma deve evitare il ripetersi di quelle iniziative che entrano in collisione
con la fruibilità dei valori ambientali, come utilizzare il Valentino come zona fieristica e per
eventi invasivi, avvilendone l'aspetto ed impedendone la fruizione estetica e culturale.
E ciò anche per incredibili archi di tempo, di parecchie settimane tra montaggio, settimana
espositiva e smontaggio, come per il Salone dell'Automobile; e proprio nella stagione
migliore, in cui il parco si offre in tutta la sua bellezza.
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Torino dovrebbe poter offrire al cittadino ed al visitatore il meglio di sé lungo tutto
l'arco dell'anno, e pazienza se questo preclude certi fastosi intasamenti, fuochi di paglia dal
punto di vista della resa economica, e certo non fari di prestigio per la città.
Dovrebbe invece sviluppare “invenzioni” attraenti ma serie e durevoli, oltre che
anbientalmente innocue, e riscoprire sia ricchezze locali del pensiero e dell'attività umana
sia tesori trascurati della città.
Le ricchezze di Torino che possono essere fruite sempre e per le quali in realtà i
torinesi stessi non si congratulano abbastanza sono prima di tutto quelle della sua identità
visibile, la collocazione nel paesaggio naturale ampio, l'arco delle Alpi e della collina, il Po
e il verde che lo avvolge, e quelle della sua struttura urbana storica, la qualità architettonica
d'insieme nei vari ambiti, lo spettacolare impianto dei suoi viali, il valore di tanti singoli
episodi di architettura.
La storia di Torino è ricca di momenti affascinanti, anche da ben prima che confluisse
con le grandi vicende nazionali, è una storia non troppo conosciuta dagli stessi torinesi, e
che per chi ne acquista confidenza irradia di interesse i luoghi che ne sono stati testimoni.
Ed oltre alla vita ed alle tradizioni culturali e politiche che ha alimentato, di cui forse
gli ultimi decenni non sono stati all'altezza, ed all'attività scientifica per fortuna ben attiva,
ha evidentemante grandi tradizioni di cultura del lavoro e ricchezza di competenze tecniche
individuali che per varie ragioni sono ora poco valorizzate, o addirittura ignorate, pur non
essendo realmente obsolete.
Anticipiamo qui, e poi svilupperemo, che appunto un museo della tecnologia e del
lavoro, di cui in qualche modo si è sempre parlato, se adeguatamente realizzato non solo
sottolineerebbe la nostra identità, ma a non pochi delle nuove generazioni potrebbe dare
idee ed incoraggiamento proprio sul loro futuro.
Le proposte di Italia Nostra riguardano esigenze di attenzione a beni culturali e
ambientali che vediamo non abbastanza tutelati o in qualche caso addirittura vilipesi,
l'importanza del non alienare beni pubblici che mediocrità politica e pressioni esterne
rappresentano come zavorra, ma anche ma anche in generale la necessità di perfezionare la
ricognizione dei bisogni e l'esplorazione delle possibilità.
In rapporto alla qualità ambientale ed alla tutela dei beni culturali tutte le forze politiche
affermano probabilmente in buona fede di perseguire con convinzione un meglio
“realisticamente possibile”, ma sono impigliate in una rete di vere o false esigenze che
fanno loro presumere di sapere individuare il giusto compromesso, la soluzione
“ragionevole”, con velata ma ben presente attenzione al consenso elettorale.
A noi di Italia Nostra sembra tuttora carente, la percezione del valore di certi beni
culturali e ambientali, e per contro vediamo una tensione ad un “fare” mitizzato, proclamato
come urgenza, a scapito del riflettere accusato come immobilismo e spirito conservativo.
Ma poi in cosa vediamo riversarsi questa ansia di “fare”? Al novanta per cento nel
costruire, nell'aumentare la massa edificata della città, sia come edifici sia come
infrastrutture, affermando che di per sé questo aumenterà il dinamismo economico, come se
ci fosse tutto un mondo di investitori pronto ad accorrere e beneficare questa città così
“dinamizzata”.
Per adesso vediamo in itinere una revisione del Piano Regolatore che, mentre sembra
migliorare un po' l'attenzione all'edilizia storica minore, mantiene aspetti deleteri del piano
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regolatore vigente, e permette incrementi edilizi certo benvenuti per l'imprenditoria edilizia,
ma in attrito con la qualità del paesaggio urbano.
Sarebbe augurabile una tensione operativa giustamente diretta all'economia, ma a quella
che non danneggia, ben comprese l'industria e l'artigianato, e contemporaneamente una
mobilitazione nel promuovere la qualità ambientale, il dibattito e la produzione culturale, la
qualità di vita.
E per quanto riguarda la necessaria tutela di beni culturali di proprietà pubblica e
privata, prima ancora di vedere quanto serva di soldi, va diffusa il più possibile la
conoscenza di questi beni, che di per sé crea interesse, un certo orgoglio di comproprietari,
ed in non pochissimi evoca disponibilità ad offrire un proprio contributo di opera.
Questa nostra “proposta”, ha come obiettivo un risveglio di attenzione per certi temi e
cerca di articolarne le ragioni e ipotizzare concretamente alcune possibilità operative.
Cercheremo di esprimerci su vari piani:
1 Scelte urbanistiche.
Posto che sarebbe stato auspicabile un nuovo PRG, che ricollocasse i bisogni
effettivi della città in una visione complessiva e lungimirante, è necessario che la
revisione parziale in corso corregga aspetti a nostro avviso decisamente incongrui
già al momento del suo varo nel 1995.
Mentre il PRG del '95 e varianti successive hanno prodotto perdite irreversibili, di
archeologia industriale e di architettura storica minore, il Piano prevede ancora
interventi squilibrati su ambiti preziosi:
Beni minacciati da ‘disattenzioni’ e previsioni di interventi squilibrati:
le sponde del Po fra incuria e tentazioni cementizie, la Cavallerizza Reale,
caserme storiche sottratte all'uso pubblico, anarchia di edificabilità incongrua
accanto a beni culturali, ecc. pag. 8
2 Doti della città da valorizzare nel giusto senso del verbo
(fiumi, collina, architettura, verde, musei, tradizioni storiche,
scientifiche e tecnologiche, ecc.) pag. 19
3 Carenze su cui intervenire ( squallore morfologico
delle periferie, insufficienza dell'edilizia sanitaria e di quella per le
attività associative e culturali ecc.) pag.41
4 Proposte progettuali (palazzo Torino-Esposizioni, Manifattura Tabacchi,
Museo di Torino, Museo della Tecnologia, Museo Nazionale dell'Artiglieria,
sottopasso Nizza-Sacchi) pag.48
5 Cultura e scuola pag.59
6 Processi decisionali, partecipazione e inventività dei cittadini pag.61
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Necessità di revisione “vera” del Piano Regolatore,
corretta istruttoria decisionale con
vera consultazione dei cittadini.
Certamente una vera revisione del Piano Regolatore, oltre ad una adeguata attenzione e
dedizione da parte degli Amministratori eletti, richiede un'immediato potenziamento del
personale tecnico degli uffici urbanistici, ed una vasta consultazione dei cittadini, cosa che
in questi decenni si è vista molto poco.
Non c'è dubbio che rispetto all'epoca della gestazione del Piano Regolatore poi
promulgato nel 1995, un lungo periodo di otto anni, sia migliorata la disponibilità
dell'informazione sui progetti di trasformazione, non foss'altro che per la comparsa della
documentazione digitale liberamente accessibile ai cittadini, ma questi non lo sanno.
Agli effetti pratici, l'effettiva partecipazione dei cittadini, sia come consapevolezza dei
processi decisionali in corso, sia come coscienza della possibilità di intervenire, è più o
meno agli stessi livelli di trent'anni fa.
Questo perché, dato un atteggiamento prevalente di scetticismo e rassegnazione, ed una
previsione di fatica burocratica senza effetto per chi si metta ad informarsi ed a formulare
osservazioni, solo una piccola minoranza di cittadini coglie questa possibilità.
E perché certo non abbiamo assistito a sforzi erculei da parte delle Amministrazioni per
diffondere l'idea che la partecipazione possa essere agevole e sia molto utile.
Solo in certi casi, che per qualche ragione ottengono una risonanza mediatica, si accende
una certa attenzione generale, purtroppo di solito dopo che una certa decisione urbanistica
ha già completato il suo iter, non si possono più formulare osservazioni, e si apre quindi
soltanto una più o meno lunga fase di protesta giustificata quanto impotente, come è
avvenuto per il grattacielo Intesa San Paolo in corso Inghilterra.
Il rimedio a questa remissività della cittadinanza, che a nostro parere ha favorito non
poche decisioni squilibrate, va assolutamente cercato, con tutta la fatica che comporta.
La parte meno impegnativa della soluzione riguarda la diffusione della consapevolezza
di temi urbanistici volta per volta sul tappeto, così come in particolare adesso abbiamo il
progetto di revisione del Piano Regolatore.
In rapporto a questo andrebbe chiesto ai media di diffondere e di ripetere costantemente
che è in atto un'elaborazione di questo tipo. E dovrebbe essere possibile attirare così almeno
una parte del pubblico a prendere contatto con la documentazione relativa sul sito del
Comune, di cui si fosse migliorata la leggibilità, ed anche ad esplorare Googleearth,
strumento prezioso, facile, che per lo studio delle forme attuali della città, nella visione 3D,
è decisivo, e per fortuna, divertente.
Sarebbe importante integrare la documentazione cartografica delle tavole del Piano
Regolatore con immagini prospettiche di possibili volumetrie secondo la normativa che si
propone, inserite nella rappresentazione fotografica delle preesistenze circostanti,
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Ci sarebbe certo una molto maggiore mole di lavoro, per un personale comunale che
andrebbe rinforzato sia numericamente, sia con figure professionali specifiche, ma ne
varrebbe assolutamente la pena.
Certo andrebbe sostenuta l'indipendenza di giudizio di tale personale ovvero la capacità
di esprimere liberamente critiche, la cui scarsa presenza ci sembra abbia concorso a tanti
gravi errori.
Insomma la qualità delle scelte urbanistiche, oltreché dalle carenze della classe politica e
da varie influenze indebite, è gravemente menomata dalla ridotta consistenza e dalla
verosimile prudenza da parte dei funzionari del Comune e ancora di più dall'assenza
effettiva del controllo da parte dei cittadini.
Proponiamo un esempio di configurazione a nostro parere singolarmente infelice che
sempre a nostro parere sarebbe stata evitata se i cittadini avessero preso visione della
variante in questione e l'avessero resa oggetto di osservazioni, e se all'interno
dell'Amministrazione ci fosse stata un'effettiva discussione sul tema.
Una palazzina di sei piani sulla Dora, a ridosso dell'Istituto Steiner, parte dello storico
Arsenale, e del settecentesco cimitero di San Pietro in Vincoli.
In questo ambito, accanto agli edifici storici si svolgeva lungo la Dora una fila di bassi
fabbricati che proprio per le ridotte dimensioni non irrompevano visivamente. Era possibile
con modesti interventi una valorizzazione ambientale che facilitasse la percezione del valore
di queste presenze storiche, e con la prossimità della Dora e la possibilità di trasformare in
giardino la piazza di San Pietro in Vincoli, questo angolo di città prima così trascurato
avrebbe anche irradiato qualità urbana in questa parte della città certo non favorita.
Così pure, riteniamo che con una cittadinanza informata diverso sarebbe stato
l'intervento su un edificio storico e sul verde che lo circondava, la cascina Fossata.
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La seicentesca cascina Fossata, testimone dell'assedio di Torino del 1706, un caso in cui
purtroppo la Soprintendenza non ha ritenuto di opporsi, è stata trasformata così:
Il progettista è uno degli architetti più creativi e persegue una sua poetica interessante
ma forse non applicabile ovunque. O meglio non applicabile dove i valori originari del
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luogo, una cascina storica sia pure malridotta, ed una fittissima presenza di verde attorno,
sia pure anarchico, suggerivano e secondo noi comportavano una soluzione relativamente
banale ma ambientalmente accogliente, un onesto restauro filologico della cascina, ed un
onesto parco che in parte poteva adottare alberi già presenti.
Crediamo che coloro che hanno deciso tutto questo abbiano tutti, o quasi tutti, per la loro
parte, deciso in buona fede. Per l'architetto con la serenità autoreferenziale che investe anche
i migliori, per i funzionari del Comune con l'abituale cautela, per i politici con la sostanziale
insicurezza culturale che li fa aggrappare alle pseudosicurezze del sistema degli archistars,
per la Fondazione che ha finanziato e diretto l'operazione con un atteggiamento manageriale
assorbito dagli aspetti di funzionalità di uso sociale, che comunque non era necessario
perseguire proprio qui.
Chi ci lascia maggiormente perplessi, in rapporto al suo ruolo costitutivo di difesa dei
beni culturali e del paesaggio, è la Soprintendenza.
Ma come si diceva, se il vasto pubblico avesse avuto conoscenza del progetto ed avesse
potuto manifestare la sua opinione, probabilmente l'esito sarebbe stato diverso.
Da tanti episodi traiamo l'impressione che mentre non è semplice ottenere dalla classe
politica, come sarebbe ideale, una molto maggiore applicazione ai problemi e maggiore
indipendenza da pressioni esterne, maggiori speranze possiamo avere in uno sforzo per
migliorare la macchina comunale e per reclutare attenzione e intelligenza dei cittadini.
Tra i non pochi aspetti generali del PRG di cui appare opportuna la correzione:
Il fatto che venga riconosciuta capacità edificatoria “virtuale” ad aree collinari
prevalentemente boschive per cui in cambio della cessione gratuita al Comune come aree a
parco vengono “ribaltati” in altre aree tali diritti edificatori, con sovraccarico urbanistico
delle aree interessate.
Nelle aree di trasformazione quantità e tipo delle strutture di servizio prodotte e/o
cedute al Comune sono calcolati con criteri non condivisibili: il “verde su soletta” viene
sostanzialmente equiparato al verde in piena terra, ed il Comune si trova a gestire, nei
giardini su parcheggi sotterranei, un verde di potenzialità ambientali molto inferiori a quanto
sarebbe desiderabile.
Non accettabile appare inoltre la possibilità di “monetizzare” il contributo di oneri
urbanistici dovuti dal costruttore, diffuso escamotage di moltissimi Comuni per integrare le
scarse entrate disponibili per usi vari, ma che non solo contrasta con i principi generali della
imposizione fiscale, ma soprattutto ha fornito e fornisce lo spunto ad autorizzazioni
edificatorie che non sarebbero state date se si fosse tenuto conto esclusivamente della
congruità urbanistica.
Troppo estesa possibilità di realizzare nei terreni collinari parcheggi sotterranei, con
non trascurabili rischi per la stabilità dei suoli in rapporto ai fattori idrogeologici. Necessità
che tutta l'area collinare sia sottoposta a più dettagliata indagine geologica di quella
attualmente annessa al Piano Regolatore, come suggerito da eventi negativi verificatisi negli
ultimi anni, dopo nuove realizzazioni edilizie per quali immaginiamo fossero presenti le
autorizzazioni previste dall'attuale normativa.
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Beni minacciati e rimedi necessari
Le sponde del Po tra incuria e progetti cementizi
Il Po non a caso deve essere presente sia in un elenco di beni minacciati, sia in quello
delle doti fondamentali della città nonché delle risorse per il suo progresso.
Non a caso perché proprio le sue doti lo espongono a tentazioni ed appetiti disordinati.
La sua bellezza, che si impone forse più ai forestieri che a noi abituati e viziati, fa sì che
gli spazi sulle sue sponde siano oggetto di pulsioni immobiliari, e mentre risalgono ad un po'
di decenni fa le palazzate dei lungopo Machiavelli ed Antonelli, ora c'è una spasmodica
speranza che la dismissione dell'ospedale Regina Margherita e di parti delle Molinette offra
una collocazione superba.
Ma il pericolo principale non viene soltanto e neanche principalmente dai costruttori le
cui palazzate anche nel peggiore dei casi dovrebbero tenersi ad una certa distanza dalle rive,
ma piuttosto diciamo così dal desiderio dei politici di dimostrare che si fanno grandi cose, e
dalla creatività narcisista di buona parte degli architetti.
Con la grandissima bellezza del Po di Torino, sarebbe naturale che tutti lo pensassero
come una fortuna per i torinesi ed una singolare attrattiva per i visitatori, da non alterare, da
non pasticciare, casomai da ripulire qua e là da qualche superfetazione recente.
E invece no. Proprio per la sua bellezza c'è chi lo vede come una risorsa da spremere
addensandovi cose varie, invenzioni architettoniche e attrezzistiche che “finalmente” lo
“valorizzerebbero” a dovere. Da vent'anni e più, almeno dal nuovo Piano Regolatore, si
sono avvicendati progetti di trasformazioni snaturanti, fortunatamente nessuno realizzato,
ma dobbiamo dirlo, non per prese di coscienza, ma essenzialmente per scarsa praticabilità
economica.
Nei decenni si sono rincorse proposte per “velocizzare” il traffico lungo il Po con
sottopassi e altre infrastrutture certo in deciso conflitto con la qualità visivo-ambientale.
Ma la minaccia divenne concreta col progetto di nuovo Piano Regolatore presentato a
fine '91 dopo vari anni di elaborazione dallo Studio Gregotti e sostanzialmente frutto
dell'Arch. Augusto Cagnardi.
Per l'ambito piazza Vittorio, Gran Madre e ponte napoleonico, dopo aver sottolineato
la straordinaria qualità del luogo, si diceva che questa ne rendeva doverosa la
pedonalizzazione, e che perciò, visto che il traffico automobilistico da qualche parte
sarebbe pur dovuto passare, si prevedeva un ponte che collegasse corso San Maurizio a
corso Casale, e un sottopasso tra corso Casale e corso Moncalieri.
A fine ’93 durante l’esame delle varie osservazioni pervenute sul progetto preliminare di
Piano Regolatore in rapporto all'osservazione presentata da Italia Nostra, la Commissione
Consiliare per l’urbanistica si convinse dell’inopportunità di questo progetto, e si accingeva
a cassarlo completamente. Senonché dopo una successiva replica dell'autore del Piano,
l'Architetto Cagnardi, si configurò una previsione intermedia: “il Piano prevede
l'opportunità di un collegamento...” e rinviava ad un concorso di idee la definizione
dell'assetto dell'insieme di piazza della Gran Madre, piazza Vittorio, ponte napoleonico ed
aree limitrofe.
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Ciò che rende l'idea di questo ponte ed accessori mortificante per la qualità ambientale di
questo luogo è presto detto: la sua costruzione quasi a ridosso del ponte napoleonico, che è
parte e belvedere del luogo magnifico che si dice di voler esaltare, da questo altererebbe
rozzamente la vista dell’ansa del fiume a valle, e dalle sponde a valle del nuovo ponte
sparirebbe la visione del complesso delle due piazze e del ponte che le unisce.
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E sarebbe necessariamente distrutto o eclissato lo scalone dei Murazzi Nord.
Mettiamoci pure sulla più gretta prospettiva “merceologica” sulle qualità attrattive di
questo nostro Po di Torino. E' importante riflettere su quanto sia unica questa sua natura di
indiscutibile bellezza, crediamo da tutti percepita.
Siamo separati dal fiume, o se vogliamo, uniti, da una natura armoniosamente
addomesticata, declivi erbosi ed alberi. Ed anche dove la sponda si fa presenza urbana, nei
Murazzi, questo avviene con grazia e convincente monumentalità.
Pensiamo per contro alla dura presenza dei muraglioni di argine che pur per necessità
hanno serrato le sponde dei fiumi di Roma e Parigi.
Nel 2007 infine si tenne il concorso di idee “La città, il fiume, la collina” sull'assetto da
dare all'ambito “di rilevante valore storico-ambientale costituito dal sistema piazza Vittorio
-sponde Po e piazza Gran Madre di Dio”.
Nei ventidue progetti entrati nella graduatoria finale, frutto della élite degli studi di
progettazione di Torino e altrove, emerse assolutamente di tutto, fuorché la discrezione che
sarebbe stata necessaria. In più della metà di essi era presente il ponte da corso San
Maurizio, in quasi tutti troviamo un sottopasso sotto la piazza della Gran Madre, con
mortificazione di ampi tratti di corso Moncalieri e di corso Casale per le rampe di accesso, e
in molti una selva di installazioni minori dislocate sulle sponde.
Per fortuna non ne scaturì un concreto proposito attuativo da parte del Comune, non per
presa di coscienza ma per mancanza di mezzi finanziari.
E' urgente cancellare definitivamente dal Piano Regolatore questa squilibrata previsione
di ponti e sottopassi, mentre questa meraviglia del nostro Po torinese va protetta così
com'è, senza dar fiato all'ipercreatività degli architetti di cui abbiamo avuto prova.
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La Cavallerizza Reale
Questo complesso monumentale così ricco di storia e così attraente, parte integrante del
Palazzo Reale ovvero della cosiddetta “zona di comando” della Torino sabauda ha potuto
piombare nell'oblio per tanti decenni dal dopoguerra per essere stato riservato all'uso
militare e precluso al pubblico.
L'Accademia Reale, di cui l'attuale complesso edilizio rappresenta la parte supersite, nata
nel Seicento su progetto di Amedeo di Castellamonte e in parte modificata nel Settecento
per opera di architetti come Filippo Juvarra e Benedetto Alfieri, nel suo primo secolo di vita
fu frequentata da rampolli dell'aristocrazia di tutta Europa, e dal nostro Vittorio Alfieri, e
dopo la Restaurazione post-napoleonica divenne sede della Regia Accademia Militare, ben
nota in tutta Europa, frequentata dal giovane Cavour e da molti altri esponenti del
Risorgimento piemontese, militari e civili che hanno concorso alla realizzazione dell'Unità
d'Italia.
Dopo la proclamazione dell'Unità, trasferita a Modena l'Accademia Militare per Fanteria
e Cavalleria, restarono i corsi per Artiglieria e Genio.
Sullo spettacolare cortile grande dell'Accademia si affacciavano sul lato ovest il fianco
del Teatro Regio dell'Alfieri, e a nord l'Archivio di Stato di Juvarra, mentre sugli altri due
lati erano i maestosi corpi dell'Accademia con portico e loggiato sovrapposto.
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Nel 1936 andò distrutto da un incendio il magnifico Teatro Regio che occupava il lato
ovest del complesso, con facciate su Piazza Castello e sul vasto cortile dell'Accademia, con
asse nord-sud parallelo alle facciate. Dopo la guerra e importanti danni da bombardamenti
a tutto il complesso, trasferita a Modena l'Accademia di Artiglieria e Genio, piuttosto poco
in auge l'eredità culturale connessa con l'ambito militare e la dinastia sabauda, il Comune
concordò con lo Stato la demolizione di una parte dell'Accademia, per poterne utilizzare il
vasto cortile per un nuovo ampio Teatro Regio.
Fu una grossa perdita non solo quanto a memoria storica ma per la qualità architettonica
del complesso, i cui danni da bombardamento non erano irreparabili. Ad ogni modo
sopravvisse la maggior parte dell'edificato, la cosiddetta “croce castellamontiana”, e fu per
decenni utilizzata dalle Forze Armate, salvo un'ala ottocentesca rivolta verso i Giardini
Reali occupata da abitazioni di dipendenti del Demanio.
Negli anni si affacciarono varie ipotesi di utilizzo culturale dell'intero complesso, e con
la pacifica convinzione che comunque fosse un bene pubblico. Poi il vento cambiò, e
soprattutto dal 2001 si cominciò a parlare della cessione di parte dell'immenso patrimonio
immobiliare dello Stato, in cui potevano figurare anche beni culturali minori.
Pur comparendo nel 2004 il nuovo Codice dei Beni Culturali che apparentemente
ribadiva l'inalienabilità di beni come la Cavallerizza, fra l'altro parte integrante del
complesso del Palazzo Reale, tutelato dall'UNESCO, nel 2005 La Direzione Regionale per i
Beni Culturali e Paesaggistici del Piemonte del Ministero per i Beni e le Attività Culturali
autorizzava l'alienazione.
E' interessante, per così dire, il testo dell'autorizzazione, se, dopo avervi letto “considerato
che il bene in oggetto non rientra fra quelli descritti all'art.54, co. 1 e 2 del D.Lgs.
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42/2004....” andiamo a leggere il citato art.54 co. 2 del Decreto suddetto: d) (sono altresì
inalienabili) le cose immobili appartenenti ai soggetti di cui all'articolo 53 dichiarate di
interesse particolarmente importante quali testimonianze dell'identità e della storia delle
istituzioni pubbliche, collettive, religiose, ai sensi dell'articolo 10, comma 3, lettera d).
E tanto più se più avanti nell'autorizzazione alla vendita, leggiamo: “deve considerarsi di
interesse particolarmente importante ai sensi dell'art.10, commi 3 lettera a) perché
costituisce parte delle annesse dipendenze settecentesche del Complesso del Real Palazzo di
Torino, sede della monarchia sabauda e più tardi italiana fino al trasferimento della capitale
del Regno d'Italia da Torino a Firenze”.
In sostanza, una decisione amministrativa in totale contrasto con una adeguata politica
di tutela, che nella sua stessa enunciazione ammette la mutilazione di un aggregato storico
unitario qual'è la “zona di comando” - Palazzo Reale. Decisione emersa in un periodo di
pseudo razionalizzazione e ricerca di valorizzazione economica dei beni demaniali in cui lo
Stato tendeva a liberarsi da una massa di beni improduttivi e relativi impegni gestionali con
atti di semplificazione sommaria delegati ai suoi organi periferici, sottoposti verosimilmente
ad una decisa pressione in questo senso.
Ora è importante impedire la definitiva privatizzazione della Cavallerizza, attraverso la
riacquisizione da parte dello Stato, e/o del Comune, cosa tecnico-legalmente possibile,
soprattutto riconosciuta che sia la non congruità della autorizzazione alla vendita originaria,
e operazione di entità economica non proibitiva, visto il prezzo originariamente corrisposto
dal Comune al Demanio, dell'ordine di undici milioni, e quello analogo versato al Comune
dalla società di cartolarizzazione che ora detiene questo bene.
E questo non impedirebbe certo l'attuazione di interventi da parte di Fondazioni, secondo
schemi già sperimentati per altre importanti entità monumentali-museali.
In ogni caso non è accettabile l'affermazione che i costi del restauro e della gestione di
questo bene siano improponibili senza l'intervento di entità finanziarie private e vendita, non
solo per la possibilità di intervento delle Fondazioni senza cessione della proprietà, ma
anche perché il complesso richiede azioni di manutenzione urgente di entità relativamente
limitata, prevedendo dunque un possibile onere per la riacquisizione dalla società di
cartolarizzazione di non più di dieci o dodici milioni, e un massimo di due milioni per
manutenzioni urgenti, che consentirebbero di valutare con calma le varie opzioni di vera
valorizzazione culturale e le possibilità di successivi interventi di restauro con l'aiuto di
Fondazioni o altre entità analogamente senza fini di lucro.
Per quanto attiene al Piano Regolatore, la scheda normativa relativa alla Cavallerizza
dovrebbe essere assimilata a quanto attualmente previsto per il Palazzo Reale, e quindi
prevedere uso museale-culturale.
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L'edilizia militare storica sottratta a possibili usi pubblici
Caserme otto e novecentesche, Ospedale Militare.
L'ex Distretto Militare di corso Unione Sovietica
Con le mutate esigenze del sistema di difesa nazionale, e in particolare con l'abolizione
del servizio militare di leva, il patrimonio del demanio militare è apparso largamente
sovradimensionato, mentre emergeva la speranza di fare cassa con edifici e impianti in parte
collocati in zone estremamente appetibili per il mercato immobiliare.
A nostro parere, a parte valutazioni che caso per caso potranno portare a conclusioni
varie, ad una dismissione generalizzata del patrimonio immobiliare militare dovrebbero
opporsi importanti considerazioni.
Certo il valore storico, e in certi casi l'importante dignità architettonica, di buona parte di
questi edifici. Ma molto rilevante è anche la natura di riserva di spazio operativo per tutta
una serie di esigenze, sia quelle che possono presentarsi improvvisamente in caso di
emergenze con necessità di dare riparo a grandi numeri di persone, sia per altre forme di
problemi collettivi, ed ora col Covid ne abbiamo capito qualcosa.
Per quanto riguarda il sistema di caserme e l'Ospedale Militare presso piazza d'Armi,
che presero forma all'inizio del '900, questi edifici sono certamente da tutelare nella loro
integrità architettonica, ma anche nelle loro potenzialità polifunzionali, e questo peraltro non
escluderebbe che, rimanendone la proprietà allo Stato, esse venissero affidate in gestione a
privati per una varietà di impieghi, e che nel tempo si individuassero nuove necessità di uso
diretto da parte della comunità.
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Questi complessi edilizi, a parte la ovvia vocazione sanitaria per l'Ospedale Militare,
per molti possibili usi non richiedono importanti interventi di ristrutturazione, essendo in
discreto stato di conservazione, e per così dire pronti all'uso per esigenze di abitazione
provvisoria di comunità, attività sportiva, didattica, per lo spettacolo e per la collocazione di
beni mobili della comunità.
Da sottolineare l'abbondanza di spazi all'aperto, che nel caso dell'Ospedale Militare
potrebbero fornire un'utile addizione al verde pubblico del quartiere di Santa Rita.
In ogni caso una tale molteplicità di potenzialità latenti deve escludere assolutamente
l'alienazione e indurre invece una fase di studio e di censimento di idee.
Il mantenimento della proprietà pubblica garantirebbe, in questo come nella maggioranza
di di situazioni analoghe, flessibilità e reversibilità di soluzioni nell'interesse pubblico,
estremamente difficile dopo aver ceduto la proprietà.
Di fronte alle troppo ricorrenti affermazioni che la proprietà pubblica non ha le risorse
per utilizzare adeguatamente complessi edilizi ed infrastrutturali, va ribadito che la vendita
non è certo l'unica soluzione.
Esistono e sono state attuate in molti casi formule di concessione per periodi molto
variabili in cui è potuto vantaggiosamente affluire finanziamento privato, per opera di
Fondazioni e quindi senza fini di lucro. E dopo molto attenta valutazione potrebbero essere
ipotizzabili concessioni anche a entità private per usi lucrativi, ma in questo caso non
dovrebbero darsi archi temporali estesi, né superiori al tempo effettivamente necessario per
rientrare degli investimenti fatti.
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I prati da non perdere
(Parella, corso Vittorio, corso Brunelleschi ecc.)
Ai prati di proprietà comunale in zone periferiche fittamente abitate, non molti, non
deve essere attribuita nel PRG la generica destinazione “verde e servizi”; verdi, su piena
terra e non galleggianti su parcheggi sotterranei devono restare. Sospesi sul rischio di
cessare di essere verdi sono quelli di via Madonna delle Salette, presso corso Francia tra
corso Marche e via Pietro Cossa, e in corso Brunelleschi angolo Bardonecchia.
Appare esasperante che, a fronte di una proclamata intenzione di interrompere il
“consumo di suolo” salvo casi particolarissimi, e in presenza di una quantità tristemente
immensa di aree industriali dismesse, e ragionevolmente disponibili per altri usi, per far
cassa il Comune possa accettare di vendere a privati per realizzare un impianto sportivo e
residenze su un terreno libero.
Molto comprensibile invece che i privati preferiscano costruire lì piuttosto che andare a
cercare un'area industriale dismessa, trattarne l'acquisto, e sobbarcarsi gli oneri di
demolizione e bonifica. Eppure, se le nostre città, e il nostro paese, vogliono avere un
futuro rispettabile, è quest'ultima la strada che si impone, naturalmente con adeguato
concorso normativo e organizzativo dello Stato nelle sue declinazioni, stato centrale,
regione, comune, e prima di tutto dando luogo ad un preciso censimento delle aree
industriali dismesse, grado di effettiva possibilità di ripresa di attività produttiva ecc.
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Necessità di aree di rispetto attorno a beni
di valore storico ed ambientale
Che attorno a certi beni architettonici o di paesaggio occorra definire un'area di rispetto,
in cui evitare di costruire, ovvero farlo con forme e volumetrie ben calibrate, ci sembra ben
esemplificato nell'infelice configurazione che già abbiamo riportato a pag.5 e che qui
riproponiamo con l'area complessiva che sarebbe stato necessario tutelare. E su cui anche
adesso, ormai “a buoi già scappati”, sarebbe giusto sottoporre a vincolo d'area, per evitare
nuovi non impossibili ulteriori peggioramenti.
Come minimo dovrebbe essere posto un vincolo volumetrico sull'ambito di bassi
fabbricati tra la Dora e la piazza, e per l'assetto dello spazio aperto di questa si può sperare
in qualcosa più felice della configurazione attuale.
Invece per fortuna fu posto, in extremis ma pazienza, vincolo per l'area su cui nel 2011
stava per sorgere, a sostituire un basso fabbricato ottocentesco, in via Gaudenzio Ferrari,
una palazzina di sette piani, che avrebbe mortificato la vista della Mole da via Sant'Ottavio.
La vicenda, con l'iniziale concessione della possibilità di una edificazione a dir poco
inopportuna, e il suo “raddrizzamento”, grazie all'azione di un gruppo di cittadini, da cui
venne il primo allarme, e cui concorse Italia Nostra, insegna quanto ancora precario sia il
sistema di controllo e tutela dei beni culturali e del paesaggio.
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E' necessario che l'intero territorio sia esaminato per identificare tutte le aree per cui,
analogamente alle situazioni citate, sia necessario creare vincoli. In parte abbiamo già avuto
miglioramenti, anche grazie al Piano Paesaggistico Regionale, ma molto c'è ancora da
cercare e da decidere.
Va anche detto che vincoli d'area o comunque precauzioni morfologiche e volumetriche
dovrebbero essere posti a ridosso di zone che i piani regolatori tutelano nella loro integrità
per valore storico-monumentale, ma che con l'erezione di masse incongrue fuori del loro
perimetro perderebbero sia di qualità visiva, sia di evocatività storica.
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Le doti da proteggere, e da riscoprire
L'architettura e la forma urbana di Torino
Torino nella sua forma urbana ha una sua bellezza che non è quella di una tipica bella
città italiana. Ha anch'essa origine antichissima, ma della città italiana non ha il fascinoso
accumulo di tracce evidenti di innumerevoli secoli, non ne ha la varietà, il calore visivo del
pittoresco. Però è veramente una bella città, una bella città europea, potremmo dire,
piuttosto che una tipica bella città italiana.
Ha sviluppato le sue qualità negli ultimi quattro secoli, e si trova straordinariamente
favorita dall'essere incorniciata da un magnifico scenario naturale, tanto che Vittorio Alfieri
che non la apprezzava troppo, com'era città severa ancora costretta nella sua cinta di mura,
ammetteva “però il naturale che è bellissimo”.
E da questo “naturale che è bellissimo”, una volta che liberatasi dalle mura si è unita alla
natura circostante, ha tratto quello che crediamo si possa dire l'affaccio urbano su un fiume
più bello che ci sia, un affaccio verde, non mediato dagli imponenti duri argini di Parigi, di
Roma, di Londra, di Vienna, di Budapest.
L'occupazione francese demolì le mura e regalò alla città il respiro che essa seppe
sviluppare coi grandi viali, una qualità di architettura ottocentesca che si aggiunse al
barocco del centro e in particolare alla grandiosità dell'allineamento delle piazze storiche.
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Torino andrebbe conosciuta anche proprio per questa peculiarità della sua storia, avere
accresciuto la sua qualità urbana in quel periodo ottocentesco postunitario che ha visto
pesanti deformazioni di Roma, Firenze e Napoli.
Anche i primi decenni del ventesimo secolo hanno in certi luoghi accresciuto la qualità
architettonica della città, basti pensare alle ville nel verde della Crocetta e nella precollina.
Con la guerra e soprattutto dopo, distruzioni e ricostruzioni pesanti, ma sostanzialmente
la città storica centrale ha mantenuto le sue forme e le sue qualità. Ma nei quartieri
tardoottocenteschi subcentrali molte sostituzioni di vecchi edifici con alti palazzi moderni
dalle forme fortemente dissonanti hanno intaccato un'armonia prima presente, vediamo
corso Cairoli, via Madama Cristina, tratti di corso Vittorio ecc.
E' importante proteggere da nuovi accostamenti incongrui quello che resta, per fortuna
molto, dell'architettura ottocentesca di questi quartieri subcentrali, San Salvario, San
Secondo, Vanchiglia ecc.
In questi è sì prescritto di non alterare l'aspetto dei vecchi edifici ma accanto a questi,
sul sito di precedenti bassi fabbricati è tuttora possibile, stante l'abituale indulgenza della
Commissione Edilizia erigere forme decisamente dissonanti dal contesto storicizzato.
E sui luoghi dove fortunatamente si è conservata una continuità del tessuto edilizio è
giusto intensificare attività di studio, sia per creare migliori premesse per la tutela, sia per
diffondere maggiormente fra i cittadini un certo orgoglio per questa architettura “minore”
non solo importante storicamente, ma che offre una armonia composta, e in certi episodi una
inequivocabile qualità.
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La collina torinese
Per quanto abbondantemente nominata e lodata in ogni descrizione di Torino ed in ogni
dichiarazione di intenti di tutela e “valorizzazione” (qualunque cosa si intenda con questo
termine), di fatto la collina di Torino è da tanti anni un bene ambientale molto meno goduto
dalla comunità di quanto fosse un tempo, diciamo in ere preautomobilistiche.
Questo per varie ragioni, una delle quali era certo un minore arco di occasioni di
ricreazione in quei tempi più frugali. Ma va detto che ora non solo è trascurata da chi non vi
abita, ma è molto meno fruibile da chi voglia esplorarla a piedi, e peraltro costituisce una
risorsa che con pochi accorgimenti potrebbe tornare a far parte della vita dei torinesi, ed
essere inoltre un'attrazione, uno dei moventi per venire a Torino.
Da decenni si teorizza nel Piano Regolatore e in documenti vari di sviluppare una
gradevole continuità di percorsi dalle sponde del Po alle sue varie sommità, ma si è fatto
molto poco.
Chi risale a piedi la collina non solo deve guardarsi dal traffico automobilisico nei tratti
in cui il percorso antico coincide con la strada, ma deve rinunciare a buona parte dei sentieri
antichi perché poco praticabili o addirittura interrotti da recinzioni abusive.
Inoltre da un po' di anni a questa parte proprio su certi tratti dei sentieri ancora
praticabili esiste un rischio non remoto di collisione con qualche intrepido mountain biker
che scende la collina a rotta di collo. Il fatto che ad oggi non si siano registrati incidenti
gravi è dovuto proprio al quasi totale abbandono della pratica di farsi a piedi la collina.
Ora invece la collina potrebbe offrire moltissimo, per certi versi anche più di quanto
fosse possibile un tempo, con adatti provvedimenti organizzativi e non proibitivi lavori.
Vediamo la quasi continuità di aree pubbliche, alcune di pregio anche straordinario, tra
il Po ed il Colle della Maddalena.
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E' già da tempo operativo, molto grazie ad Associazioni come Pronatura, un percorso dal
Parco Leopardi sino alla cima. Ma sarebbe ancora più spettacolare ed invitante un percorso
che attraversasse gli splendidi parchi di Villa Abegg, e di Villa Gualino, per congiungersi
poi col parco di San Vito nel percorso già presente che raggiunge il parco della Maddalena.
Un percorso che attraversasse ed unisse queste entità comporterebbe solo brevi tratti
stradali per aggirare proprietà private. Sarebbero necessari accordi con le attuali gestioni di
Villa Abegg e di Villa Gualino ed Ospedale Don Gnocchi, ma vista la rilevanza
dell'iniziativa non dovrebbero porre ostacoli, richiedendosi solo opere di recinzionedelimitazione
ed eventualmente ponticelli di collegamento perchè il sentiero non
interrompesse la continuità tra le porzioni di parco in uso ai rispettivi enti.
Inoltre, in alcuni punti di questo percorso con apertura sul magnifico panorama delle
Alpi potrebbero sorgere luoghi di sosta attrezzati ma “spartani” per ricreazione tranquilla,
riposo, lettura, panorama, acqua potabile e servizi, niente bar, con strutture abbastanza a
prova di vandali e senza necessità di presidio. Ne potrebbe venir fuori una fruizione della
collina non solo molto più armonica e partecipata, ma un elemento di richiamo turistico, e
magari un giorno, se questo avesse successo, facendo un salto di impegno organizzativo, ci
potrebbero essere lungo il percorso un paio di piccole biblioteche, le cui necessità di
presidio potrebbero non risultare economicamente proibitive, se ci fosse un'utenza
abbastanza folta, e con un rinforzo dell'immagine di gradevolezza della città (book hill?).
Ma a parte le doti da valorizzare quanto ad uso della collettività, va detto che la nostra
collina non appare adeguatamente analizzata e conseguentemente sorvegliata nelle sue
caratteristiche idrogeologiche e nelle relative prescrizioni da piano regolatore.
Occorre come minimo un potenziamento dell'attività di indagine geologica e la verifica
della congruità delle possibilità di intervento edilizio ora presenti.
In particolare occorre una specifica valutazione da parte del comune delle implicazioni
idrogeologiche di ogni singolo intervento su terreno libero, inclusi i parcheggi sotterranei.
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Il panorama delle Alpi e della collina
La vista di magnifici scorci panoramici o dagli spazi aperti il panorama intero delle Alpi,
come godibile nelle non rare giornate limpide, è una delle doti singolari di questa città.
Purtroppo la si è ignorata in certe decisioni ed è indispensabile che ciò non avvenga più.
Abbiamo visto cancellare schermandoli con integrazioni urbanistiche, i cannocchiali
visuali, come quelli che nelle vie dritte di Torino o lungo i fiumi e in spazi ampi nelle
giornate serene inquadrano scorci di montagne o di collina.
Come nelle vie perpendicolari a via Nizza che si scontrano col caseggiato tirato su in
via Muratori, o sulla Dora, che offriva una magnifico vista sulle Alpi ora interrotta dal
mazzo di grattacielini in corso Mortara.
Dora, il panorama eclissato dai “grattacielini” di corso Mortara – via Orvieto
Andrebbe elaborato un inventario delle visuali preziose fruibili dalla città, già in gran
parte presente nel libro del compianto Giorgio Faraggiana, e dovrebbe condizionare le scelte
urbanistiche.
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via Tiziano, ex cannocchiale panoramico interrotto da via Muratori
In questo caso si direbbe che il Comune sia “venuto incontro” ad un desiderio di
progettista e costruttori di dare il massimo di percezione panoramica e di grandiosità di
composizione al nuovo complesso edilizio fra la ferrovia e via Muratori, a scapito del
respiro spaziale e delle gradevolezze di visuale di via Nizza e delle vie perpendicolari.
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I fiumi di Torino
Oltre al Po, il nostro paesaggio più prezioso, hanno certo valore ambientale importante
gli altri nostri fiumi in città, e l'intenzione proclamata dall'Amministrazione è sempre stata
quella di mettere in evidenza questi luoghi, secondo il progetto “Torino città d'acque”.
Il molto condivisibile obiettivo di questo progetto, che ha più di vent'anni, sarebbe di
rendere piacevolmente passeggibile la totalità del tratto cittadino dei fiumi torinesi, e lungo
queste sponde dotare di verde tutti gli ambiti non urbanizzati o precedentemente occupati da
usi impropri o attività industriali in dismissione.
Mentre le sponde del Po, come prima detto, non hanno subito sostanziali cambiamenti
in questi vent'anni, non essendosi attuati previsti progetti infelici, e peraltro neanche
progressi nella percorribilità, e mentre le sponde della Stura e del Sangone hanno
effettivamente fruito di miglioramenti, sulla più centrale Dora, così rilevante come
possibilità di incremento della qualità ambientale della città, si sono commessi errori
irrimediabili, sostituendo piccole fabbriche sette-ottocentesche inframezzate di verde, tra la
Dora e Strada del Fortino, con algide palazzate postmoderne. Mentre questo ambito,
prezioso non solo per valore storico, ma anche per presenza scenografica, aveva una
gradevolezza facilmente evidenziabile con poche ripuliture da superfetazioni.
Prima della cura....
25
E dopo....
E più a valle verso corso Giulio Cesare si è costruita una palazzina a ridosso del
cimitero settecentesco di San Pietro in Vincoli e dell'ottocentesco Istituto Steiner, parte dello
storico Arsenale, che abbiamo già citato e deprecato a pag.5.
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Ora purtroppo non si può più fare granché per questo tratto della Dora fra il ponte
Mosca e corso Principe Oddone, che avrebbe potuto offrire una passeggiata ricca di verde e
pittoresche presenze storiche. Ma il ricordare questi errori può servire a comprendere
quanto possono far male carenze di sensibilità, automatismi burocratici e protagonismi
progettuali.
Tornando al Po ed alle sue sponde, miracolosamente per ora quasi intatte, gravano
possibilità ancora annidate nel Piano Regolatore ed anche ipotesi varie di animazionemanomissione
che spesso saltano fuori.
Abbiamo detto della previsione di un ponte tra corso San Maurizio e il parco Michelotti,
nonché del sottopasso sotto la piazza della Gran Madre, con voragini di rampe d'accesso in
corso Casale e in corso Moncalieri.
Eppure, nella visione dell'autore del Piano Regolatore, questo sarebbe conciliabile con la
sua immagine delle doti del Po, che nel Piano è definito “l'asse del loisir”, della ricreazione,
espressione che si potrebbe condividere, nel senso che è luogo ideale per passare tempo
libero, per ricrearsi, come si dice. Ma dobbiamo intenderci su cosa debba intendersi per
loisir, su come sia desiderabile che fluisca questa fonte di qualità di vita.
E' vero che questa ricchezza è poco fruita dai torinesi, si cercano piaceri più eccitanti.
E peraltro questo crediamo non dispiaccia a chi invece in un modo o nell'altro si gode il
fiume e questa bellezza senza doverla condividere con troppi.
Naturalmente questa pace idillica oggi godibile si riferisce all'arco diurno. Di sera e di
notte fino a qualche anno fa ai Murazzi di vita ce n'era un eccesso, e certo per quel luogo
possiamo sperare in un ritorno di vita, con quell'equilibrio che a suo tempo mancava.
E per la sera, si prestano ad un uso ragionevole non solo i Murazzi, ma quasi tutta la
lunghezza delle sponde, che ora disertate per vago timore di brutti incontri, potrebbero
offrire belle passeggiate purché adeguatamente illuminate e ben dotate di telecamere.
Mentre è preziosa e da incoraggiare l'attività della voga, è invece decisamente in rotta di
collisione, non solo in senso figurato, ogni ipotesi di navigazione motorizzata, come
noleggio o come servizio pubblico, che vada oltre la sostituzione dei due battelli pubblici
ignominiosamente naufragati anni fa.
Ad ogni modo il Po con le sue sponde costituisce l’ambiente ospitale e rasserenante
per i non moltissimi che passeggiano, corrono, si soffermano, contemplano o lo percorrono
remando.
Ammetterebbe una certo numero di persone in più purché restassero a questo stesso arco
di attività, che ne rispettano l'atmosfera di bellezza e di armonia tranquilla. E possiamo
pensare a un punto di equilibrio, con un maggior numero di torinesi e con un maggior
numero di forestieri che avessero scoperto questa atmosfera.
E che potrebbero diffondere l'idea che a Torino si possono passare parecchi giorni senza
annoiarsi, fra l'altro alternando le visite culturali con passeggiate speciali.
Ma evidentemente non è da tutti pensarla così. Il Parco Michelotti ne è l'esempio
singolare, ovvero non solo l'esempio del non cogliere il valore di certe cose, ma del penosocomico
alternarsi di periodi di trascuratezza ad altri di iperprogettualità megalomane.
Il parco, già presente nell'Ottocento dopo lo scavo del canale Michelotti, dal 1955 al
1987 fu occupato dallo zoo. Abolito lo zoo per la crescente attenzione alle condizioni degli
animali, ci si chiese cosa farne, problema che in teoria avrebbe dovuto essere semplice, visto
che la naturale vocazione di un parco, ben dotato di alberi ed in una bellissima posizione, e
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che sia stato destinato per un certo tempo ad un uso non troppo invasivo, dovrebbe essere
quella di tornare ad essere parco, con modesti lavori di sgombro.
Ma invece no: si sentiva il bisogno di farci qualcosa di particolarmente attraente, di
significativo, e sembrava uno spreco non utilizzare le modeste costruzioni lasciate dallo zoo.
E così venne fuori la pur simpatica installazione di Experimenta ed altre cose, bar ecc. il
tutto poi arenato per mancanza di mezzi per sostenere le varie attività.
Dopo alcuni anni di libera percorribilità dell'area, sembrò necessario recintare il tutto
per questioni di sicurezza, e questo favorì una folta vegetazione spontanea peraltro
bellissima, ma anche l'insediarsi di persone senza fissa dimora, la cui presenza fece lievitare
una duplice vulgata: quella appunto di un degrado-pericolo, e quella secondo cui avrebbe
avuto costi proibitivi per il Comune riabilitare il parco e poi mantenerlo.
E così spuntò l'idea che l'unica cosa da fare fosse affidare per un bel po' di anni il
parco ad un qualche privato che ne facesse un qualcosa di più o meno ricreativo, di più o
meno educativo, con ingresso beninteso a pagamento.
Arrivò così a un passo dalla realizzazione il cosiddetto bioparco Zoom, piuttosto
definibile come una Disneyland che fra l'altro avrebbe incluso anche una “pagoda cinese”,
avrebbe necessariamente avuto implicazioni edilizie-cementizie non trascurabili, ed avrebbe
precluso la ricostituzione della piacevole passeggiabilità del viale di Ginkobiloba che
costeggia il parco lungo il Po.
Ora finalmente si sta lavorando per riaprire il parco, con costi certo sopportabili per la
città, e finalmente torinesi e visitatori potranno avere a disposizione un comodo percorso
camminabile continuo da Moncalieri a Sassi, per buona parte su entrambe le sponde, ma
elettivamente su sponda sinistra da Moncalieri, Italia 61, Molinette, Valentino, Murazzi, e
poi passando in sponda destra alla Gran Madre, Parco Michelotti e viale Michelotti fino al
parco del Meisino.
E bene così, ma speriamo che non saltino fuori altre “trovate”...
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La bellezza del territorio
Chiamiamolo come vogliamo il territorio in cui si colloca Torino, anche con questo
nome un po' burocratico di “Città Metropolitana”, che al giorno d'oggi sembra evocare solo
pensieri ansiosi e confusi su come governarla, ma soprattutto prendiamo atto di come sia un
gran bel territorio, e di come poterne fruire sia una delle buone cose del vivere a Torino o di
visitarla, con a portata di mano una grande varietà di ricchezze di paesaggio, fra l'altro non
superfrequentate.
Questa compiacimento sembra trovare la sua eccezione nel non esaltante paesaggio
della cintura torinese, crivellata di impianti industriali, di infrastrutture, di raggi di
conurbazione verso tutte le cittadine.
Allora, detto che la bellezza del paesaggio certo si situa oltre questo anello industriale,
nella montagna, nella collina, nelle campagne meno urbanizzate lungo il corso superiore del
Po, e che è questa la bellezza subito fruibile, tuttavia proprio sulla fascia più compromessa
occorre fermarsi a pensare: c'è molto da riflettere, molto da lavorare, ed è proprio lì,
paradossalmente, che lavorando bene si possono avere i migliori progressi di qualità.
La cintura, anche dopo la costituzione della Città Metropolitana, resta penosamente
svantaggiata per il trasporto pubblico, e di questo già si parla giustamente molto nella
cintura stessa, e poco nel dibattito elettorale torinese, polarizzato su bisogni e paure degli
elettori residenti in città.
Ma a parte l'auspicio di una maggiore collaborazione istituzionale tra città e territorio
prossimo, anche invece nell'ambito un po' dato per perso, quello della qualità visivoambientale
di questo territorio confusamente semiurbanizzato, molto si potrebbe fare.
E l'occasione, proprio in questo momento per tanti versi drammatico ma che vede
piovere attenzione obbligatoria e anche risorse finanziarie prima assolutamente
imprevedibili, sembra esserci nell'associabilità fra restauro visivo, o per meglio dire
mimetizzazione del moderno sgradevole, e fondi per mettere a dimora, sperabilmente con
criteri adeguati, un numero elevato di alberi.
C'è il forte rischio che questo venga sì fatto, perché ci saranno interessi a farlo, ma fatto
molto peggio di quanto desiderabile, perché ci potrebbe essere la tentazione di piantare
grandi quantità di alberi all'ingrosso, dove risulti più economico farlo, senza troppa
attenzione alla miglior resa nel paesaggio, ed alle caratteristiche dei terreni. Pur premesso
che comunque da interventi di questo tipo per quanto mal fatti difficilmente potranno venire
peggioramenti dell'attuale paesaggio periurbano, sarà importante istituire un forte controllo
sulla qualità di queste operazioni, perché porvi la massima attenzione può davvero
migliorare la vivibilità per gli abitanti della cintura, e anche per chi vive a Torino.
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Il verde di Torino
Il verde a Torino è certo una ricchezza evidente in ampie parti della città, anche al di
fuori della meraviglia del Po e della collina. E negli ultimi anni ci sono stati incrementi con
nuovi parchi e giardini in siti postindustriali. Il ché non toglie la perdurante mediocre
attenzione alla qualità ambientale, anche in centro, con le banchine alberate dei grandi viali
ridotte a parcheggio, la modestia del verde in periferia, la sua quasi assenza in quartieri
semiperiferici con alta intensità abitativa.
Cerchiamo di imparare dagli errori ormai irrimediabili come la distruzione del vero
parco che esisteva in piazza d'Armi sostituito dalla piazza Olimpica, visivamente gelida, e
bollente d'estate, ed il discutibile assetto del Parco Dora, e proviamo a migliorare tante cose
piccole o magari neanche tanto piccole che possono essere migliorate.
Evocare concorsi di idee fra tutti i cittadini su come migliorare certi luoghi, potrebbe
far emergere buone idee e comunque sarebbe un'attivazione piacevole per chi aderisse. In
particolare a noi vengono in mente punti della città su cui si potrebbe ragionare.
Uno è per esempio piazza Valdo Fusi, per la verità più bistrattata dalle critiche di quanto
forse meriti, in cui fastidiosi ma verosimilmente migliorabili sono gli affacci su via Cavour
e via Giolitti, con le fredde voragini degli accessi al parcheggio sottostante. E lì un qualche
schermo di verde si potrebbe pensare.
Non sembra difficile progettare un verde gradevole lungo questa sequenza di pali, né
dovrebbe interferire con la funzionalità delle rampe.
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E al posto degli interminabili e tristi muri di recinzione di caserme dismesse e
dell'Ospedale Militare potrebbero sorgere cancellate e siepi, certo per esempio contribuendo
a redimere l'aria di duro squallore di un certo tratto di corso Orbassano.
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Anche al lunghissimo muro perimetrale del Cimitero Monumentale gioverebbe una
copertura verde, così come al verde siamo abituati ad affidare la ricerca di un'immagine
serena all'interno di questi luoghi.
Mentre una varietà di ambienti della città ora poco attraenti potrebbero guadagnare
qualità con “invenzioni verdi”, anche gli ambiti apparentemente più felici richiedono
progressi nella loro tutela.
I nostri magnifici viali, soprattutto corso Vittorio, con l'alberata ben definibile come
monumentale nel tratto fra Porta Nuova e corso Vinzaglio, meritano di essere protetti nel
loro splendore scenografico e con i controviali liberati da una mortificante coltre di auto
parcheggiate.
Naturalmente è fondamentale preservare e se possibile incrementare la qualità visiva dei
grandi viali storici, dovuta essenzialmente alle maestose proporzioni degli alberi.
Periodicamente sentiamo riaffacciarsi il discorso per noi assolutamente inaccettabile,
dell'opportunità, per economia di intervento, di sostituire interi filari di questi alberi storici
con piante giovani, anziché, come per fortuna avviene adesso, abbattere e sostituire solo
alberi a rischio di schianto. Ed anche in alcuni di questi casi, secondo noi, sarebbe giusto
non abbattere alberi di eccezionale bellezza, ma metterli in sicurezza se necessario non con
cavi ma con opportune protesi, tipo di intervento sostanzialmente ignorato dai nostri servizi
del verde, per la sua supposta onerosità economica e tecnica, ma anche pensiamo noi per
una timidezza progettuale dovuta a mancanza di esperienza specifica, a sua volta dovuta alla
cronica scarsità di finanziamenti.
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Ma comunque il problema del verde in Torino, a parte miglioramenti puntuali possibili e
possibili miglioramenti nei criteri di gestione, intercetta in pieno il problema delle risorse
economiche della città, visto che si è arrivati letteralmente a vendere gradevoli giardini
esistenti per puntellare i conti, come nel caso del giardino “Artiglieri da Montagna” in corso
Vittorio di fronte alla “cittadella giudiziaria”.
Speriamo che questa sinistra messa all'incasso di aree di verde pubblico già ben presente
e fiorente, come questo giardino, o di prati liberi, come l'area di via Madonna delle Salette
presso corso Francia, diventi finalmente troppo imbarazzante per essere tollerata.
Ma soprattutto per il verde occorrono risorse adeguate, che comunque ammonterebbero
ad una frazione molto modesta del bilancio comunale.
Deve essere incoraggiato e rinforzato il sempre più piccolo nucleo di personale del
Comune addetto a questa gestione.
E certo potrebbero concorrere a varie attività cittadini interessati al volontariato in questo
settore, naturalmente studiati che fossero adeguati percorsi di formazione e protocolli di
sicurezza.
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Il verde in periferia
Il tema del verde nelle periferie intercetta evidentemente quello generale delle carenze,
che cerchiamo di toccare in altra sezione; qui proviamo ad evidenziarlo in rapporto ai dati
tangibili, presenza o meno del verde dove è giusto che sia, e potenzialità di realizzazioni..
Intanto è innegabile che proprio in periferia siano situati grandi parchi, e che in parte
dei complessi residenziali di origine economico popolare possiamo vedere una discreta
presenza di verde fra le abitazioni, in particolare in zona Vallette ed alla Falchera.
Ma per gli spazi pubblici che non sono stati privilegiati da grandi progetti, la periferia
presenta ambiti di deprimente squallore, che proprio il verde potrebbe redimere.
In zona ovest, corso Francia, parchi e giardini, dopo il bel parco storico della Tesoriera,
cominciano a latitare, e non parliamo poi della fitta conurbazione Collegno-Grugliasco-
Rivoli.
P.za Massaua – c.so Francia, al centro i prati Parella doverosamente destinabili a giardino
La perentoria bellezza dei viali storici esistenti si impone come dote da conservare nel
tessuto urbano; ma deve essere suggerimento di un disegno urbano ancora da incrementare.
Vediamo come le alberature stradali siano quasi assenti nella viabilità periferica. Così corso
Francia, così Strada San Mauro, così i larghissimi e nudi tratti periferici di corso Giulio
Cesare e corso Vercelli, che pure costituiscono altrettanti ingressi e presentazioni della città.
O anche tratti stradali piu interni come corso Vercelli tra piazza Crispi e corso Emilia per
larghezza suscettibili di una reinterpretazione come viali; o invece via Bottticelli, via Reiss
Romoli, assi viari di scorrimento tra fronti edilizi di recente formazione dove è esclusa ogni
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connotazione di verde, anzi ogni suggerimento collegato alla parola 'viale' ; tutto un insieme
di situazioni stradali che, per quanto compromesse, non sono inevitabilmente perdute, e
intervenendo con un disegno del verde risulterebbero incisive nel tessuto periferico,
estendendovi il respiro di qualità urbana dei viali storici.
strada San Mauro
Via Brunelleschi: ci è stato detto che condutture varie sotto queste strade impediscono di
piantare alberi. Ma certo su strade così larghe, alberi e sottoservizi potrebbero convivere.
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Verde di prossimità, verde capillare
Un verde accessibile a piedi con percorsi brevi, per il bene di tutti, ma soprattutto per
persone anziane o disabili, è purtroppo impossibile da realizzare in certi punti della città,
pensiamo per esempio a Santa Rita e a vasti quartieri a nord del centro, come Aurora e
Barriera di Milano. Eppure camminare e poter raggiungere un posto in cui sostare in modo
abbastanza rilassante non può essere considerato un lusso.
Oltre che prevedere ampi spazi di verde nelle aree di trasformazione presenti in tali
quartieri, come quella dell'ex OGM su corso Vigevano, corso Vercelli e via Cuneo, negli
ambiti edilizi saturi dove non c'è più spazio ipotizzabile per giardini si potrebbe provare ad
immaginare onesti palliativi, come potrebbe essere utilizzare parte della larghezza delle vie
per allestire marciapiedi alberati, naturalmente se in accordo con i residenti.
Più complicato ma da qualche parte non impossibile mettersi d'accordo con privati per
l'utilizzo di cortili.
E visto che del verde, della flora, è piacevole la semplice vista anche senza la possibilità
di attraversarlo, andrebbero incoraggiati balconi verdi e rampicanti sui muri ciechi, sicuri
come siamo che alla maggioranza della gente piacerebbero e anche alla peggio non
disturberebbero nessuno, cosa che non sempre avviene con certe forme di street art.
Accanto a nuovi interventi verdi trainanti quali quelli prevedibili nelle aree di
trasformazione, come l'area della ex OGM tra corso Vigevano e corso Vercelli che
migliorerebbero decisamente ampie zone semiperiferiche, anche interventi verdi minori
possono apportare migliorie sensibili, rispondendo a richieste di vivibilità cittadina.
Intensificare interventi pubblici minori, proprio come quelli già realizzati in diverse zone,
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arborando una rotonda o piantando un alberello sul marciapiede in un incrocio stradale,
incide anche sui modelli culturali coi quali si guarda al verde urbano. In questo senso
immaginiamo il risultato diffusivo che potrebbe avere una campagna per i “Muri rinverditi”
capace con una accurata disposizione di rampicanti di portare a verde le tetre infilate di
lunghi affacci murari- come quelli del Cimitero Generale, delle Caserme dismesse...
situazioni in cui l'iniziativa pubblica potrebbe avere un effetto moltiplicatore e raggiungere
una evidenza urbana, attraverso accordi pubblico/privato. Un argomento nevralgico,
quest'ultimo, da affrontare col Regolamento del verde urbano, e con una attiva
promozionalità che tuttavia solo in rapporto ad una diffusa coscienza di desiderabilità può
risultare efficace.
Una valutazione delle iniziative avviate nel tempo da Associazioni e dalla
Amministrazione comunale ci indica nei risultati molto differenziati, vedi il successo
locale dei concorsi per i “Balconi fioriti” e invece l'insuccesso di una operazione per i
“Cortili verdi”, una difficoltà nella partecipazione e nella diffusione; che forse potrebbe ora
diminuire, aderendo al mutarsi di atteggiamenti e di attese di naturalità nell' ambiente
cittadino. Ad una politica di rinverdimento urbano che agisca su accordi tra pubblico e
privato non mancano gli esempi. Pensiamo al lancio a Parigi e altre città francesi dal 2015
dei progetti di “vegetalisation” che sono riusciti ad inserire alberelli e fioriture davanti agli
ingressi di casa, lungo i marciapiedi.
Anche se rimane un tema delicato o acerbo, di questo rapporto pubblico/privato per il
verde cittadino si sono avute nuove esperienze, vedi i risultati di Co-city, e di azione
promossa dai cittadini, il giardino lineare di corso Gabetti, che stanno a dimostrare una
crescente consapevolezza di come iniziative di gruppi spontanei possano produrre risultati
utili a tutti.
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Il verde di nuovo progetto
Un requisito indispensabile nella progettazione di nuovi spazi di verde, su qualunque
scala, è a nostro parere che godano di una qualità visiva e di fruibilità riconoscibile dalla
generalità del pubblico. Mentre per quella che è stata la più importante trasformazione in
parco di un ambito industriale dismesso, il Parco Dora, si è scelto di affidarsi ad un archistar
dei parchi postindustriali, ed alla sua “visione”, senza chiedersi abbastanza quale potessero
essere le preferenze di chi abita nella zona, né dei torinesi in genere.
Certamente questi abitanti sono stati lieti, dopo tanti anni di abbandono delle fabbriche
e non pochi anni di cantieri, di veder prender forma un insieme di spazi che nel complesso
merita il nome di parco, ma l'aspetto piuttosto algido di vaste sue porzioni, ed anche quello
discutibile delle parti esplicitamente “verdi” fa sia rimpiangere che un sito così promettente
non sia stato sfruttato molto meglio, sia che non vi sia stata una consultazione del pubblico,
che verosimilmente avrebbe preferito metterci molto più verde e meno “zampate d'autore”.
Questa sopra è l'unica porzione del Parco Dora, sull'area ex Michelin, che possiamo
veramente chiamare parco, i cui meriti vengono soprattutto dai grandi alberi lungo la Dora,
che già c'erano, e in cui non felici sono le sciabolate geometriche dei sentieri.
Mentre di seguito diamo esempi di due porzioni del Parco Dora la cui progettazione
sembra essere scaturita da interpretazioni molto, troppo personali del progettista, per le quali
le emozioni positive, se pur presenti, sembrano poter scaturire da un'impressione di
singolarità, di “non visto prima”, più che dall'elegia postindustriale che dovrebbe evocare
evocare la prima, mentre non immaginiamo quanti si trovino a loro agio nella seconda.
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Area delle acciaierie e sotto, area giardino geometrico fra Envipark e Dora
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E' da questa e non poche altre realizzazioni che si rinforza la nostra convinzione che,
mentre non possiamo più di tanto immaginare una “progettazione partecipata” per
progettazione di edifici, se non diritto di obbiezione su certi aspetti, per i parchi il discorso
sia diverso, ammetta e anzi richieda formulazione di richieste e indicazioni da parte del
pubblico.
In particolare crediamo che il consenso vada soprattutto al verde verde, con preferenza
particolare per alberi e radure e percorsi sinuosi, la formula del “giardino inglese” così
felicemente presente al Valentino, nel grande parco della Pellerina, e in vari piccoli
apprezzatissimi giardini storici torinesi, piazza Carlo Felice, piazza Cavour, i Giardini Reali
Bassi, e che è stata infelicemente cancellata dalla “piazza Olimpica” in corso Sebastopoli.
Il parco di piazza d'Armi “prima della cura”, come sia adesso lo sapete
Ma quando commentavamo sfavorevolmente quanto si stava facendo col Parco Dora ci
siamo sentiti dire da un alto dirigente comunale che noi di Italia Nostra non capivamo
granché, che non capivamo la cultura, che di parchi convenzionali Torino ne aveva in
abbondanza ed era culturalmente doveroso che si facesse un parco veramente
“contemporaneo”.
E questo snobismo della modernità, questo annetterle un valore incondizionato, al di
sopra del giudizio e delle richieste della gente semplice “che non capisce”, ci preoccupa.
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Carenze su cui intervenire
Non ci sembra opportuno che Italia Nostra entri a discutere di carenze per ambiti
importantissimi, ma che afferiscono al dibattito politico. Le carenze di cui parliamo hanno a
che fare con la difesa dei beni culturali, materiali e immateriali, del paesaggio e dell'assetto
urbanistico e dell'ecosistema, e naturalmente tutto questo attiene anche alla qualità di vita ed
alla salute.
La qualità dell'aria
Per quanto riguarda la qualità dell'aria, lasciamo enunciazioni di dati ad associazioni
e gruppi particolarmente documentati. Di sicuro è desiderabile un minore impiego del
mezzo di trasporto privato, col potenziamento quantitativo ed altrettanto organizzativo del
trasporto pubblico con veicoli non inquinanti. Per quanto riguarda l'uso della bicicletta, e da
recente dei monopattini elettrici, vediamo che sta guadagnando terreno, e che peraltro va
affrontata la pericolosa anarchia dell'uso di questi monopattini.
Certo da migliorare, non solo per il trasporto pubblico ma anche per creare una
possibilità di usare la bici senza rischio, è la viabilità verso la cintura. Basti pensare a come
sia proibitivo dirigersi verso Borgaro o Mappano.
Per quanto riguarda il verde, proprio noi di Italia Nostra, che certo lo vedremmo bene
ovunque, siamo un po' perplessi per questa retorica quantitativa del piantare alberi, che
prospetta di piantarne moltissimi, perché è organizzativamente facile, su bei prati, che già
circondati di alberi stanno bene così, trascurando l'attenzione a ripiantare alberi dove sono
spariti ed a piantarli dove veramente portino una rivoluzione di qualità.
E' inoltre irritante, quantomeno sul piano della conoscenza, la confusione, la
sovrapposizione fra il problema dell'inquinamento, dell'aria nociva, che nella pianura
padana effettivamente esiste, e quello dell'aumento di CO2, gas certamente non tossico nelle
percentuali che sperimentiamo normalmente, ma che è disastroso per il riscaldamento
globale.
Più che di “boschi urbani” che concorrerebbero in forma infinitesima a contrastare
l'aumento di CO2, abbiamo bisogno di una città, centro e periferia, capillarmente più verde,
per il piacere dello spirito e per i vantaggi di benessere fisico, ombra e raffrescamento.
Mentre non è che alla crisi climatica abbia concorso una diminuita massa vegetale in Italia,
dove forse è persino aumentata negli ultimi cento anni, ma è il consumo di energia fossile in
Italia come altrove, e la spaventosa deforestazione delle foreste tropicali ed equatoriali.
Quindi l'enfasi su numeri enormi di alberi che si vorrebbero piantare ci preoccupa un
po', come possibile alibi per la non sufficiente attenzione a problemi più spinosi ma sui quali
l'azione rischia maggiormente cadute di consensi, come la razionalizzazione dei consumi.
E così pure ci preoccupa, ora nella corsa ai benedetti fondi del Recovery, l'enfasi sulla
semplificazione per gli impianti di energia rinnovabile, che insieme a giuste semplificazioni
di ordine puramente burocratico rischia di eliminare o minimizzare le valutazioni
dell'impatto su quei valori già ora mediocremente tutelati con le norme esistenti, la tutela
del paesaggio, dei beni storici, e la sicurezza idrogeologica.
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Le strutture sanitarie
Senza entrare sul piano delle caratterstiche gestionali, sul piano urbanistico vanno
individuati in ogni area della città spazi per le strutture sanitarie intermedie fra medicina di
base e ospedali, teorizzate da vari decenni e sostanzialmente inattuate.
Poiché la struttura organizzativa della sanità è affidata alla Regione, il Comune deve
condurre con questa una efficace collaborazione progettuale per quanto attiene la
destinazione degli spazi esistenti e l'individuazione di nuove collocazioni.
A noi viene da rilevare prima di tutto che ammessa e certo non concessa la congruità
sanitaria del far eventualmente decadere la qualifica di ospedale per l'Oftalmico e il Maria
Adelaide, dovrebbe essere evidente la necessità di utilizzarne comunque per intero gli spazi
per l'attività sanitaria, escludendo ogni altra ipotesi.
In ogni caso è fondamentale una distribuzione capillare delle strutture intermedie,
sostanzialmente poliambulatori attrezzati e presidiati in modo tale da intercettare una parte
importante dei pazienti che affluiscono ai pronto soccorso dei grandi ospedali,
penalizzandone le prestazioni. Perché una relativa prossimità, oltreché naturalmente il
livello delle prestazioni, è necessaria per sostenere l'attrattività per l'utenza.
Ci sembra poi inammissibile che il complesso di ospedali raggruppati lungo il Po, in
posizione ambientalmente felice e facilmente raggiungibile con mezzi pubblici, debba in
parte essere demolito e messo sul mercato immobiliare per fornire risorse al previsto “Parco
della Salute” in zona Lingotto-ex Fiat Avio.
A nostro parere sarebbe possibile e preferibile realizzare un “Parco della Salute” nella
stesso sito delle Molinette, sostituendone a poco a poco i padiglioni, ed idem per gli
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ospedali contigui e sinergici, con nuova edificazione negli spazi liberi, vista l'enorme area
disponibile, e successiva demolizione dei padiglioni sostituiti.
Ma anche salvo restando il progetto attuale di Parco della Salute in zona Avio-Lingotto,
non dimentichiamoci di quanto valore possa avere, per la qualità di vita di pazienti,
operatori sanitari e familiari dei pazienti, una collocazione ambientalmente felice, come lo è,
anche se finora non valorizzata a favore dei suddetti, la posizione lungo il Po e di fronte alla
collina.
Se le Molinette devono abbandonare gran parte delle attuali funzioni, è doveroso che
tutta l'area resti comunque impiegata in attività sanitarie, e che si costituisca una fascia di
giardino lungo la parte est del complesso, fronte fiume e collina, realizzabile fra l'altro
anche con la demolizione del parcheggio multipiano (che a suo tempo fu realizzato
eliminando un giardino).
Per le varie nuove RSA previste dalla revisione del Piano Regolatore in itinere possiamo
sperare che vengano previsti sia da nuove disposizioni regionali sia da normative del Piano
Regolatore precisi criteri di distribuzione degli spazi interni alla luce delle tristi esperienze
della pandemia. Con nuovi edifici dovrà essere possibile sia disporre di spazi idonei alla
visita dei familiari, la cui impossibilità ha produtto innumerevoli situazioni penose, sia un
adatto assetto degli spazi interni comuni dedicati alla socialità interna fra gli ospiti, nonché
naturalmente sezioni che consentano l’isolamento pur temperato da accorgimenti per un
contatto visivo coi familiari.
Altri settori sanitari che richiedono attenzione da parte della normativa urbanistica sono
certo la psichiatria e l' assistenza riabilitativa. Mentre è competenza della Regione ravvivare
lo studio della congruità degli spazi attualmente in uso e dettare regole per nuovi spazi, di
questi spazi la normativa urbanistica comunale dovrebbe emanare regole specifiche di
garanzia quantitativa e qualitativa.
In particolare per i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, i cosiddetti “repartini”
annessi agli ospedali, congrui spazi all'aria aperta, naturalmente compatibili con l'esigenza
del controllo, appaiono indispensabili.
Per l'assistenza riabilitativa per una varietà di patologie e stati, fra i quali naturalmente
gli esiti di insulti vascolari neurologici, e quelli di traumi articolari nei molto anziani che
non riescono a recuperare la deambulazione, l'immersione in piscina o altre tecniche non
praticabili a domicilio sono estremamente utili e vanno moltiplicate le attrezzature.
Mentre è chiaro che il problema resta ancorato anche alla spesa per il personale
specialistico necessario, il Comune per parte sua potrebbe premiare sul piano normativo
l'edilizia sanitaria che prevedesse una significativa aliquota di tali installazioni fisse.
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Centri di incontro
Di centri di incontro, luoghi di possibile aggregazione e ricreazione per persone di ogni
età, ma in particolare indirizzati ad anziani, disabili, persone che soffrono di solitudine, ve
ne sono un certo numero, ma prevalentemente sono connotati per un tipo di utenza e non
adatti per altre.
Poi naturalmente ci sono associazioni culturali e sportive, tipicamente le bocciofile, che
svolgono anche una funzione analoga,
Ora che finalmente, allentatosi il Covid, strutture di questo tipo tornano a funzionare, è il
caso di cercare di accrescerne il numero e la qualità, anche riflettendo sul tipo di
deprivazione relazionale che questo periodo ha fatto conoscere a moltissimi.
E per quanto riguarda il cercare locali adatti, in scarsezza di risorse, consideriamo che i
valori immobiliari per certe tipologie di locali, in particolare commerciali ai piani terreno in
periferia, e per grandi uffici, sono crollati, e che il Comune stesso possiede un certo numero
di immobili, con dotazioni non a norma, ma in realtà utilizzabili senza rischi.
Naturalmente il problema non è solo reperire locali, ma avere personale qualitativamente
e numericamente adeguato che li gestisca. Se il Comune e le Fondazioni si rivolgessero al
mondo delle associazioni, così numeroso e valido a Torino, qualcosa si potrebbe fare, anche
in attesa di formazione e reclutamento di un numero adeguato di figure professionali.
E questa attivazione di luoghi in cui si cercasse un certo flusso di attività atto a
migliorare un po' la qualità di vita dei frequentatori, e degli stessi animatori, varrebbe anche
a potenziare gli studi su come sviluppare al meglio questa sfera, su cui potrebbero
concorrere non solo psicologi, sociologi e portatori di varie competenze, ma ogni cittadino
seriamente interessato.
L'ideale sarebbe che in tali luoghi potessero sentirsi a proprio agio non solo persone
anziane e/o più o meno socialmente isolate, anche grazie a figure di supporto, ma che ci
fosse un certo grado di attrattività anche per la generalità della cittadinanza.
Non facilissimo, ma certo un obiettivo meritevole....
E identificati i locali utilizzabili, molti dei quali probabilmente già di proprietà del
Comune, sarebbe opportuno sfrondare le normative sulle dotazioni che condizionano
l'autorizzazione all'esercizio, e che caricano enormemente i costi. Solo quello che attiene
alla sicurezza fisica ed alla accessibilità da parte dei disabili dovrebbe essere garantito,
mentre il resto, arredamento, comodità varie, controllo climatico, finitura delle superfici
potrebbe essere affidato all'eventuale opera dei volontari-utilizzatori.
Ripetuta la preziosa ovvietà che il volontariato di aiuto può migliorare la vita di chi aiuta
altrettanto che quella di chi è aiutato, possiamo dire che Torino, proprio anche grazie alla
sua tradizione di attività di assistenza, può fare di più, migliorando l'identificazione dei
bisogni, e lo studio del come fare, che evoca un volontariato di inventiva oltre a quello di
presenza-empatia.
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Ambiente e periferie
Sulle periferie, che in quanto aree per molti aspetti svantaggiate attirano continui auspici
di intervento ma all'atto pratico azioni poco incisive, Italia Nostra propone qualche
considerazione non solo sul piano morfologico ambientale che le è proprio, ma anche su
aspetti sociopsicologici ed economici che in qualche modo a questo si intrecciano.
Pur essendo convinti che un ambiente visivamente migliore migliori la vita degli
abitanti, non concentriamoci solo sulla qualità di progetto, ma piuttosto cerchiamo di
ragionare sul come cominciare a lavorare insieme a questo fine, amministrazione ed abitanti
di una certa porzione di città, migliori la vita, l'autostima ed il senso di appartenenza di
questi abitanti.
E questo già, per non dire soprattutto, nella fase di ideazione e di allestimento delle varie
iniziative, purché si sia veramente arrivati a raggiungere ogni singolo abitante quantomeno
con questa proposta di collaborazione, dati i vissuti di esclusione ipotizzabili più in certi
luoghi che altrove.
Una inevitabile condizione di base, per lo meno per i prossimi anni, di risorse modeste,
va sinceramente dichiarata e può essere vissuta non come deprimente ma in qualche modo
come sfida corroborante : “vediamo cosa riusciamo a fare con le nostre idee, con le nostre
mani, e pochi soldi...”.
Da un punto di vista morfologico le nostre periferie, salvo quando si affacciano su
corsi d'acqua od aree a parco, certo non godono di un valore visivo-ambientale di base,
edificate con agglomerati di edilizia ultraripetitiva. Peraltro, in buona parte degli spazi
circostanti c'è una apprezzabile presenza di verde pubblico, quel verde sotto casa che non si
trova nei quartieri subcentrali di Torino, e che comunque presenta margini di miglioramento
sia per attrezzature sia per dotazione botanica.
Oltre ad un contributo di lavoro fisico, e partecipazione decisionale reale, potrebbe
configurarsi un vero emergere di inventiva, per esempio nell'immaginare attrezzature di
gioco, o ginniche, o di seduta autocostruibili, naturalmente verificata che fosse l'assenza di
rischi derivanti da queste.
Nell'attuare forme di opera volontaria o anche dei cosiddetti “lavori utili” remunerati
si è sempre riscontrata da parte del Comune un'estrema prudenza relativa ai possibili rischi
fisici, con conseguente limitazione a compiti elementari e di scarsa gratificazione. E'
possibile che si possano immaginare formule assicurative antiinfortunistiche che rendano
praticabili prestazioni più complesse e gratificanti.
Naturalmente il tema dello svantaggio sociale delle periferie e possibili rimedi va
trattato soprattutto su piani che esulano dalle competenze di Italia Nostra, ma questo
coinvolgere direttamente i cittadini nel miglioramento dei loro spazi sarebbe certamente
sinergico ad ogni intervento su altri piani, e proponibile a persone di ogni età.
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Qualità visiva dell'ambiente urbano
Nella città contemporanea sono frequenti fattori di deciso peggioramento della qualità
visiva, sia dovuti ad indispensabile attrezzatura segnaletica e piccole infrastrutture, di per sé
di non semplice migliorabilità, sia per interventi privati e pubblici sui quali sarebbe giusto
che la comunità potesse esprimere un giudizio, non trattandosi di aspetti che implichino
competenza tecnica, ma attinenti a comuni sensibilità.
Lo spazio sovrastante la stazione della metropolitana a Porta Nuova, pur condizionato
da una serie di condizioni tecniche, poteva verosimilmente essere risolto in modo più felice.
Si poteva ridurre la mutilazione del Giardino Sambuy ripristinandone una fascia di prato
anche al di sopra degli impianti sottostanti, ed anche la pavimentazione in asfalto concorre
ad una sensazione negativa.
Nelle vie del centro osserviamo una forma di peggioramento dell'ambiente visivo
particolarmente evidente a causa della conglomerazione di tanti negozi in sedi bancarie o di
altri uffici, che cancella la varietà delle vetrine commerciali, lasciando una uniforme
sequenza di vetrate senza attrattiva.
Il Comune potrebbe come minimo esercitare una pressione morale per dare più simpatia
visiva a questi riquadri, e vengono subito in mente non poche possibilità, fra le quali
collocare immagini di bellezze del paesaggio e dell'arte. E oltretutto, a differenza di quanto
avviene per altri problemi, è probabile che le varie entità aderirebbero volentieri, perché
immagini gradevoli, e che non escluderebbero le informazioni commerciali, potrebbero
concorrere al risultato promozionale.
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Sempre parlando dei piani terra commerciali, occorre una più attenta sorveglianza della
congruità visiva delle insegne commerciali, che negli ultimi tempi ha visto la comparsa di
elementi un po' invasivi.
Inoltre, vista l'anarchia in passato prevalente nel permettere grossolane alterazioni di
facciate ottocentesche con materiali incongrui attorno a vetrine, sarebbe opportuno un
“piano di rientro” con facilitazioni normative e nella fiscalità comunale per chi ripristini il
decoro originario.
In generale, mentre si potrebbero citare innumerevoli elementi di disturbo visivo
nell'arredo urbano, sia in quello funzionale, sia quello di dubbia indispensabilità, come la
cartellonistica pubblicitaria, dovrebbe essere maggiormente identificabile, nel Comune, chi
decida o approvi in questo campo, per avere una interlocuzione più costruttiva.
Anche in questo campo sarebbe importante un contatto con l'opinione dei cittadini.
Da tenere a bada e non accettare automaticamente le proposte di regali di elementi di
arredo urbano e/o opere d'arte di matrice pubblicitaria.
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Idee progettuali
Palazzo Torino Esposizioni, Manifattura Tabacchi,
Museo di Torino, Museo della Tecnologia, Museo Nazionale
dell'Artiglieria, sottopasso Sacchi-Nizza
Il futuro del Complesso Torino-Esposizioni
Mortificazione di possibilità ci sembra il progetto di utilizzarlo come nuova sede della
Biblioteca Civica, o quantomeno utilizzare per questa il grande padiglione 2.
Il magnifico spazio del palazzo Nervi non solo si presta ad una varietà di impieghi
temporanei di grande valore culturale e di attrazione a disposizione della città, ma oltretutto
questo è pienamente integrabile con l'uso da parte del Politecnico per attività sia didattiche
per vasti numeri sia proprio per iniziative ipotizzabili preferibilmente se non esclusivamente
in spazi di questa scala.
Teatro di Architettura è una delle definizioni che troviamo giusta per tale ruolo. Perché
approfittando di uno spazio simile è possibile allestire sia una molteplicità di schermi fissi o
mobili di qualunque dimensione, sia strutture tridimensionali temporanee che le tecnologie
attuali consentirebbero di realizzare in relativa economia.
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A parte una pluralità di iniziative di ambito didattico, e di comunicazione attinenti al
Politecnico, verosimilmente illimitato potrebbe essere l'arco di iniziative culturali ed anche
commerciali, come ben ci ricordiamo per i primi decenni di vita del complesso. Attività che
il Comune ha avuto spesso difficoltà a collocare in questi anni, ovvero ha collocato in pieno
conflitto con la qualità ambientale, con l'uso fieristico del Valentino, ed anche con
l'invasione pacchiana delle piazze e vie del centro storico.
E tornando all'attività formativa del Politecnico ed anche ad un appello alla creatività
aperto anche al pubblico, i vasti schermi potrebbero consentire proiezioni per un breve
numero di minuti di un gran numero di idee morfologiche o tecnologiche ad un gran numero
di persone, delle quali gli interessati potrebbero scaricare i video e/o rivederle su piccoli
schermi o monitors in altre parti del complesso.
Sembra di osservare una tendenza generale, nel riciclo di edifici dotati di ampi spazi
unitari, come appunto edifici per esposizioni, o grandi stazioni storiche, all'utilizzo mediante
“riempimento”, che viene considerato a ragione o probabilmente a torto necessario per
assolvere alla nuova funzione, ma che non solo mortifica le qualità spaziali, ma preclude
una varietà di usi flessibili potenzialmente illimitata.
Prendiamo il caso, secondo noi tristissimo, del Palazzo Vela di Annibale Rigotti, che era
non solo forma unica ma spazialità interna unica con affascinante presenza di giochi di luce
ed ombra naturali. E' stato “riempito” in modo irreversibile dal Palaghiaccio di Gae Aulenti,
in un momento in cui con la frenesia delle Olimpiadi sembrava occorresse eliminare ogni
intralcio di scrupolo “conservatore” e, ben al di là di effettive strette necessità tecniche,
tirare su edifici che giovassero alla grancassa mediatica, ipnotizzabile solo con l'immissione
di archistars.
Ed alla Soprintendenza, vaso di coccio in rapporto alla corazzata olimpica, sembrò
giusto decretare che si potesse procedere, beninteso purché l'intervento fosse “reversibile”, e
vediamo bene quanto reversibile potrebbe essere, con varie decine di milioni di euro.
“Andato” ormai il Palazzo Vela, come grande spazio illimitatamente reinterpretabile ci
resta il padiglione di Nervi a Torino Esposizioni. Pensiamoci bene prima di immobilizzare
anche questo magnifico ambito con una pur benemerita Biblioteca Comunale, realizzabile
anche altrove, e in particolare nella Manifattura Tabacchi, favorendo qualità di vita e
rinnovamento sociale nella non favorita periferia nord.
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Manifattura Tabacchi
La Manifattura Tabacchi, sulla quale dopo la cessazione dell'attività si sono riversate
ipotesi di riutilizzo più o meno attendibili ma mai concretizzate, è ancora lì, e non “tale e
quale”, ma molto più male in arnese proprio nella parte più interessante.
Il complesso comprende la Manifattura Tabacchi, di proprietà del Demanio, e i fabbricati
sulle sponde del Po, di proprietà del Comune di Torino, l'ex FIMIT, con un interessantissimo
nucleo ottocentesco, purtroppo lasciato per decenni in balia delle intemperie.
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E allora la Manifattura Tabacchi e il suo destino si prestano ad un ventaglio di
considerazioni che possono comprendere anche separazione di interventi, anche se
coordinati e sinergici, fra l'ex Manifattura, di proprietà dello Stato, e l'ex Fimit.
La Manifattura, di grande interesse come monumento di archeologia industriale,
presenta lungo corso Regio Parco un fronte edificato settecentesco, e all'interno un vasto
agglomerato di edilizia più tarda, anche successiva alla guerra.
Per quanto riguarda la parte di proprietà del Comune, l'ex Fimit, situata sulle sponde del
Po, ed anche per questo dotata di una potenziale attrattività visivo-ambientale, anche in
attesa di una destinazione finale unita o separata da quella della ex Manifattura Tabacchi, il
pregevole fabbricato ottocentesco merita un restauro, e questo potrebbe essere condotto
mediante un cantiere-scuola di restauro edilizio, dedicato ad addestrare in tecniche di
costruzione tradizionali, di muratura e carpenteria.
Sempre nell'area ex Fimit, l'enorme capannone industriale moderno a nord potrebbe
essere oggetto di demolizione, bonifica e rinaturalizzazione, ricostituendo quindi la
continuità del verde lungo tutta la sponda del Po dalla foce della Dora alla confluenza con
la Stura, e fondendo in un unico parco quelli della Colletta e della Confluenza.
Mentre per la Manifattura Tabacchi propriamente detta, sulla quale negli anni si sono
affacciati e insabbiati vari progetti, sarebbe particolarmente felice insediarvi la nuova
Biblioteca Comunale, con illimitati spazi disponibili, e una facile raggiungibilità con la linea
2 della metropolitana, evitando così di impegnare il complesso di Torino Esposizioni.
Così la Manifattura Tabacchi, che offrirebbe un amplissimo ventaglio di possibilità
culturali oltre alla fruizione del suo patrimonio librario, potrebbe ben dirsi la nuova (grande)
biblioteca nel nuovo (grande) parco, e contribuirebbe alla promozione di quella che appare
la parte più svantaggiata della città.
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Museo di Torino
Di un “Museo di Torino” si è parlato in tempi più prosperi, e si è anche ipotizzato di
collocarlo nel palazzo juvarriano della Curia Maxima in via Corte d'Appello.
In tempi più recenti e più bui, sia per le finanze della città sia per la perspicacia di certi
suoi amministratori si è invece persino parlato di vendere la Curia Maxima, speriamo sia
stato solo un fraintendimento da parte di giornalisti.
Di sicuro un museo sulla storia della città, delle sue forme e della vita dei suoi abitanti,
sarebbe non solo un regalo per la vita culturale e il piacere di identità dei torinesi, ma
un'attrazione anche per i visitatori.
Già esiste un ammirevole Museo Torino digitale, pregevole anche perché affianca alla
documentazione iconografica ed alle schede storiche ed esplicative una nutrita bublioteca
consultabile e scaricabile.
Ma un museo della città “in carne ed ossa” avrebbe un impatto positivo assolutamente
importante e sarebbe in perfetta sinergia con quello sul web.
L'esposizione di oggetti illustranti la vita della città nelle varie epoche e nei diversi strati
sociali, naturalmente integrata da grandi riproduzioni di iconografie contemporanee può
risultare, se ben progettata, di grande fascino per i visitatori oltreché naturalmente di solido
apporto culturale.
Ma poi si potrebbero offrire grazie alle tecnologie digitali esperienze letteralmente
immersive nella città del passato, integrando ricostruzioni 3d col patrimonio fotografico ed
anche cinematografico sulla città.
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La sopravvivenza fisica di molti edifici, la documentazione iconografica di molti altri e
i quadri di paesaggio, la conservazione dei fili viari e degli ancoraggi topografici potrebbe
consentire su grandi schermi, anche a 360°, visite virtuali, percorsi attraverso la città nelle
varie epoche, tanto più facile per l'area della Torino prenapoleonica, ma anche per la Torino
della Risorgimento, privata delle mura e circondata ancora dalla campagna.
Dalla seconda metà dell'Ottocento l'enorme disponibilità di materiale fotografico
faciliterebbe decisamente le ricostruzioni delle fasi più recenti.
Sarebbe desiderabile poter fruire di vasti schermi possibilmente circolari, piuttosto che
soltanto di visori 3D, per consentire fruizione, godimento collettivo e scambio di
impressioni in ciascun ambito.
Naturalmente sarebbe decisiva la qualità del progetto e dell'esecuzione, ma in una città
come Torino, in cui già esiste una solida professionalità in questo ambito di tecnologie, non
sarebbe difficile ottenerla, e questo lavoro concorrerebbe ulteriormente al potenziamento di
una preziosa nicchia produttiva.
Per quanto riguarda il reperimento di oggetti di ogni epoca, a parte quelli già nella
disponibilità del Comune, si può sperare che di fronte ad una adeguata scelta di
collocazione, disponibilità di spazi e chiarezza di impostazione progettuale, non
mancherebbero donazioni e lasciti da privati.
Se adeguatamente progettato e dotato, un tale museo potrebbe interessare e coinvolgere
un pubblico veramente vasto, non certo solo locale.
Inoltre la quantità di lavoro qualificato che sarebbe necessaria per ottenere questo
risultato potrebbe in parte scaturire da cantieri scuola afferenti agli istituti universitari.
Sarebbe una occasione di approfondimento culturale e anche un nucleo di stimolo alla
socializzazione. A Torino abbiamo benemerite istituzioni culturali dedicate alla storia,
locale e generale, ma da decenni tende a inaridirsi il ricambio generazionale, molto a causa
del bombardamento di stimoli diversi cui sono esposti i giovani.
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Un museo della tecnologia
Un nucleo di materiali per un tale museo è stato da tanti anni raccolto dal Politecnico,
ma non ci risulta che abbia avuto concreti incoraggiamenti dal Comune.
Eppure sarebbe importante un museo che fosse illustrazione della storia della tecnologia
e in particolare del suo sviluppo in Piemonte, e della storia del lavoro e delle sue condizioni.
E che fosse anche esposizione della tecnologia in quanto individualmente praticabile, come
ruolo di lavoro nella realtà dell'impiego subordinato, ma anche nelle possibilità
ingiustamente poco citate e poco conosciute del lavoro indipendente, artigianale e
tecnologico-creativo.
Quella dimensione che proprio in una città come Torino ha evidentemente forti
tradizioni ma che le ha viste illanguidire, prima nello strutturarsi di una monocultura
industriale che ha a poco a poco soffocato altre attività, poi nel crescente discredito per
l'attività manuale, e infine nell'oggettiva implosione dell'attività industriale e dei tanti
artigianati e imprese minori che alla grande industria erano direttamente o indirettamente
legati.
Un museo che quindi non solo evocasse e raccontasse una storia universale del lavoro
umano e della tecnologia come insieme degli accorgimenti che ne scaturiscono, non solo
dedicasse particolare attenzione a quanto da questo punto di vista si è svolto sul nostro
territorio, ma incoraggiasse a coinvolgersi in tutto questo.
E' non solo triste, ma esiziale per la nostra città lo scomparire per esaurimento
generazionale di tante competenze, che ancora oggi potrebbero tradursi, finché ne sono vivi
i portatori, in un riversamento non solo di curiosità, di aneddoti tecnici e personali, ma di un
mare di idee.
Da una parte delle quali potrebbe saltar fuori utilità concreta, e per qualcuno un innesco
di interesse per attività lavorative ora annichilite non tanto dal mercato, ma dal collasso
delle vocazioni, pensiamo fra l'altro a tante forme di artigianato.
E altrettanto dovrebbe innescare l'inventività, che per svilupparsi si giova sì di cervelli
particolari ma altrettanto di stimoli diretti, di esperienze, di occasioni.
Per cominciare a lavorare su un tale progetto di museo non è indispensabile avere già
identificato una collocazione, a parte evidentemente tenere presente che dovrà disporre di
spazi ampi. Si può cominciare a censire, e in qualche modo “prenotare” macchinari ed
attrezzature di interesse storico sopravvissute, ma anche macchinari più recenti sino al
contemporaneo, che una volta collocati possano anche essere messi in funzione.
E si possono accumulare ipotesi di scelta di materiale iconografico, tra un campionario
certamente eterogeneo e molto articolato, con l'idea di poterlo proporre su ampi schermi, a
rotazione, o su pannelli fissi per le immagini più significative. Iconografia da vecchie
riviste scientifiche e tecnologiche, materiale fotografico e cinematografico più recente, il
tutto potenzialmente interessante sotto aspetti alquanto vari.
Viene dall'iconografia del passato una seduttività dell'immagine, dalla qualità strepitosa
dell'arte grafica di allora, oltre che quella del sapere e del capire; può evocarsi, in una parte
dei visitatori e in particolare si spera tra i giovani, una certa “epica della tecnologia”, che
può emanare sia da antiche raffigurazioni, sia dall'immagine fotografica e in movimento.
Sarebbe non solo auspicabile ma effettivamente possibile che un museo del genere
aiutasse ad innescare nei giovani una maggiore disponibilità a scelte di studio e lavorative in
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ambiti di tecnologia e di scienza, dalle opzioni per lavori che implicano anche manualità,
dei tecnici specializzati, alle più articolate ed ambiziose carriere progettistiche e scientifiche.
Quello che le vecchie generazioni hanno fatto con le mani, o calcolato col righello
calcolatore, non è solo folklore, patrimonio sentimentale: è anche insegnamento, e non solo
umano ma anche di flessibilità intellettuale tecnologica.
E va detto, per quanto riguarda il lavoro manuale qualificato, che ce ne sarà sempre
bisogno. Quanto alle sue caratteristiche, sarebbe utile che in un tale museo fossero
disponibili interviste per esempio a chi abbia lavorato o tuttora lavori come tecnico addetto
alla manutenzione in una grande o piccola industria, per capire quale ventaglio di
competenze si debbano accumulare, quale successione di sfide di inventività si debbano
affrontare ecc.
Parlando poi di lavoro manuale qualificato si spera che ne aumenti offerta e richiesta
nell'ambito della tutela dei beni culturali, restauro edilizio e restauro artistico, per il quale
abbiamo nel Torinese importanti istituzioni pubbliche e private, ma che certo ha bisogno di
ulteriore sviluppo, e che potrebbe trovare forma di collaborazione con un museo della
tecnologia.
E per quanto riguarda la dotazione di oggetti tridimensionali di un tale museo, oltre
naturalmente ad una auspicabile raccolta di cose grandi e piccole di ogni tempo, dal un
maglio antico alla lima, sarebbe molto importante, proprio ai fini di riflessione vocazionale
ma anche intellettuale in genere, la presenza di macchinario di produzione contemporaneo.
Non solo nell'ambito di meraviglie di meccatronica, e delle seduttrici stampanti 3D, che
potrebbero anzi restare nell'ambito dei video, ma macchine utensili a controllo manuale,
torni, fresatrici ecc. mostrate nel loro funzionamento, ed eventualmente, certo con le dovute
precauzioni, lasciate provare dal pubblico. E questo non solo per innescare vocazioni di
artigiani, ma per avviare ragionamenti in tutti, e soprattutto nei giovani ancora incerti su
dove proiettarsi, dai futuri ingegneri ai futuri cuochi ai futuri filosofi....
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Il Museo Nazionale dell'Artiglieria
Dire che il Museo Nazionale dell'Artiglieria è un tesoro sconosciuto della città non è
volo retorico ma è vero nella definizione “tesoro” e nell'aggettivo “sconosciuto”.
Tesoro per l'estrema importanza storica delle sue collezioni, ora purtroppo collocate si
può dire in naftalina, altrettanto tesoro per la sua sede nel cinquecentesco Mastio della
Cittadella, superbo residuo delle fortificazioni della città immediatamente erette al momento
del trasferimento a Torino della capitale del Ducato di Savoia.
Sconosciuto purtroppo non solo perché gli spazi del Mastio sono stati inagibili per un
quarto di secolo, con le collezioni accatastate altrove, ma perché i torinesi lo frequentavano
pochissimo anche prima, non perché non lo trovasse molto interessante chi lo conosceva,
ma per la scarsa promozione che ne faceva il Comune di Torino e per la sua particolare
configurazione amministrativa, con la collezione di proprietà dell'Esercito e da esso gestita,
mentre l'edificio appartiene al Comune.
Ma tornando alla definizione di tesoro per quanto riguarda le collezioni, basti pensare
che in esso, avente per nucleo tutte le armi ed i materiali didattici utilizzati per l'istruzione
degli ufficiali del Regno di Sardegna e prima presenti nell'Arsenale, dopo l'Unità affluirono
tutti i pezzi più interessanti artisticamente e tecnicamente dai vari stati italiani preunitari,
altrimenti destinati alla rifusione del loro prezioso bronzo, e poi nuove armi di ogni genere.
Certo comunnque il pezzo più importante per la sua presenza scenica ma soprattutto
per la sua straordinaria importanza storica è la gigantesca bombarda di Costantinopoli, per
un secolo collocata all'aperto nel giardino di fronte al mastio.
L'importanza storica di questa arma monumentale non è semplicemente quella di
essere stata testimone dell'assedio che nel 1453 consegnò Costantinopoli all'impero
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ottomano, ma proprio quella di essere stata coprotagonista di questo evento così decisivo
nella storia europea. Fu proprio questa bombarda, con una sua gemella, ed un'altra più
grande, possiamo immaginarla alla luce di questa, a consentire ai turchi di aprire brecce
nelle formidabili mura della città.
Ora dopo decenni è stato finalmente ultimato il restauro del Mastio, mentre da tutto
questo tempo le collezioni sono stivate altrove, ma per una carenza di comunicazione e
collaborazione fra il Comune e l'Esercito, l'edificio è ora rispondente ad esigenze museali
generiche, ma con nuova pavimentazione con tubazioni di riscaldamento sottostanti non più
idonee a sostenere il peso delle centinaia di pezzi d'artiglieria prima presenti.
Di conseguenza ora si rischia una impostazione piuttosto riduttiva del ritorno delle
collezioni nella loro sede storica, con solo una piccola rappresentanza, mentre il grosso
sarebbe ospitato in locali della caserma di corso Unione Sovietica, l'ex Distretto Militare.
E' estremamente opportuno che invece il Mastio accolga per intero le parti più
importanti della collezione, anche se questo potrà comportare lavori supplementari, che
potrebbero ridursi all'approntamento di “zattere” per ripartire il peso sul pavimento,
rapidamente costruibili e collocabili.
Il valore storico della collezione, che non comprende solo pezzi d'artiglieria ma
innumerevoli altre armi, attrezzature, strumenti scientifici, documenti, testimonianze di
eventi dall'antichità fino a noi, nonché di un'evoluzione tecnologica che in un certo senso ha
guidato quella delle tecnologie civili, è straordinario.
E investe l'interesse di un pubblico molto più vasto di quello di studiosi e specialisti.
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Ampliamento e riattivazione del sottopasso pedonale
tra via Nizza e via Sacchi
Realizzabile, verosimilmente senza interrompere l'attività di alcuna parte della stazione,
puntellando il sottopasso esistente ed avanzando per fasi.
Si può dire che alla inutilizzabilità del sottopasso esistente, chiuso al pubblico da
almeno trent'anni, ci si sia rassegnati con eccessiva docilità, come in effetti avviene
facilmente a Torino. A suo tempo si disse che nessuno ci passava per paura di brutti
incontri, peraltro effettivamente possibili, e in seguito si disse che sarebbero stati necessari
lavori di consolidamento onerosi e che non ne valeva la pena.
Poi ci fu un momento, nel 2002, con la meteora dell'idea, infinitamente deleteria, di
smantellare Porta Nuova come stazione, grazie al cielo rientrata a poco a poco senza che
nessuno sentisse il bisogno di chiedere scusa per la perdita di tempo e non solo. Durante
quell'infatuazione si disse che così finalmente si sarebbe posto rimedio alla separazione,
un'intellettuale disse “separatezza”, fra San Secondo e San Salvario.
Inutile dire che per una ventina d'anni prima e per la ventina d'anni successiva né da
parte di politici né sui giornali si è più parlato granché di un problema che effettivamente
esiste e potrebbe essere attenuato senza grande sforzo.
Persino il sottopasso attuale con le sue dimensioni ridotte risulterebbe utile, integrato
naturalmente da accorgimenti per la sicurezza e per l'accesso ai disabili, ma dovrebbe essere
evidente come un tunnel più ampio, di sette-otto metri, sarebbe remunerato da un
significativo passaggio, fra l'altro con presumibile rendita da immagini pubblicitarie sulle
pareti, appetibili perché esposte ad attenzione inevitabile.
E certo con vantaggio per l'animazione e la vivibilità delle due strade collegate.
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La cultura e la scuola
Le attività culturali ed il loro sostegno da parte del Comune sono state indubbiamente
dignitose anche in questi anni di difficoltà economiche, parlando naturalmente del pre-
Covid, ma certo si sono svolte quasi esclusivamente lungo binari convenzionali e doverosi,
mostre e iniziative museali, sostegno allo spettacolo di qualità, gestione delle biblioteche.
Mentre servirebbe una maggiore applicazione al problema generale della scarsa
diffusione della cultura in tutte le fascie di età, problema titanico, si dirà, e di cui dovrebbe
occuparsi essenzialmente la nazione, per il quale però il Comune potrebbe fare di più anche
da solo. Perché adesso, e non certo sorprendentemente, le attività culturali sono
essenzialmente a beneficio di chi la cultura già la frequenta.
Un di più è fattibile anche senza certezza di afflusso di mezzi finanziari, in particolare
con una molto maggiore proiezioni di stimoli, naturalmente sulla base di uno studio cui
dovrebbero concorrere Università e Regione.
A parte quanto può essere irradiato coi veicoli informatici, sarebbe utile una diffusione
molto più capillare di luoghi di attività, che potrebbe non essere economicamente proibitiva
con una pragmatica flessibilità nell'adottare sedi spartane e un vigoroso appello al
volontariato culturale.
Niente costose ristrutturazioni, giusta tolleranza su impiantistica carente, solo la
sicurezza fisica dei frequentatori dovrebbe essere garantita, ed il di più, la comodità e la
piacevolezza visiva potrebbero essere a poco a poco introdotte dall'opera di volontari se
adeguatamente incoraggiati.
Il tema della cultura come alimento dello spirito certamente per chi già sia portato a
servirsene si confronta con quello degli strati della popolazione, giovanile e non, che non
abbiano avuto modo di formarsi questa sensibilità, e in questo senso va detto che il
problema dell'evasione scolastica è molto più importante per le sue conseguenze,
letteralmente di ogni genere, che non quello di una modesta produzione delle attività
culturali comunemente intese.
Il problema di come ridurre ai minimi termini l'evasione scolastica è certo molto
complesso, è faticoso affrontarlo, richiede coordinamento fra organismi comunali, regionali
e dello stato, ma comunque il Comune deve concorrere, sia nel coordinamento delle
strategie, sia con la delicata opera del servizio di Assistenza Sociale, sia nel cercare di
escogitare prodotti culturali e ricreativi collaterali a quelli scolastici che in qualche modo
incoraggino la frequenza dell'ambiente scolastico.
Opera ulteriormente non semplice ma importantissima se poi si pensa alle comunità
nomadi, per le quali evidentemente il problema è una trattativa credibile con le famiglie.
Comunque, tornando al tema generale di una politica della cultura, più importante che
poter esibire un vasto fatturato di iniziative culturali dovrebbe essere fare progressi
nell'irradiare un bisogno di cultura, curiosità. Le biblioteche comunali, che certo operano in
questo senso, dovrebbero avere a disposizione risorse molto maggiori per far sapere della
loro esistenza, e della possibilità di scoprirvi cose interessanti.
Dati i tempi, difficilmente potranno arrivare importanti risorse economiche, ma si può
cercare e sperare di ottenere un contributo importante da un volontariato culturale che offra
idee ed opera.
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In ogni caso, per captare interessamento e partecipazione, in particolare presso i
giovani, è bene ove possibile offrire modalità interattive, e proposte di attività, che
combinino offerte di conoscenza a occasioni di socializzazione. Con ricerca naturalmente di
operatori e volontari adatti a svolgere questa promozione, ma anche con appello agli
studiosi di psicologia sociale, accademici o indipendenti, per una perdurante ricerca del
come far meglio.
Per i luoghi fisici che possono essere di supporto, a parte le biblioteche esistenti ed altre
che è desiderabile che nascano, si possono individuare spazi pubblici di vario genere,
elettivamente piccole piazze, aree mercatali fuori orario, ma anche strade in tratti privi di
abitazioni, in cui svolgere attività ad attrezzatura zero, di spettacolo, di creazione artistica, di
informazione.
Per contro, proprio per quanto riguarda la produzione artistica, che certo è vivace in
Torino, occorre però definire meglio il rapporto fra incoraggiamento della espressione
artistica e diritti di scelta dei cittadini, per le opere permanenti negli spazi pubblici.
Riteniamo che l'apparizione di nuove opere artistiche in tali spazi, sia per opere
tridimensionali in piazze e giardini, sia su muri ciechi di edifici, dovrebbe essere
condizionata ad una istruttoria di gradimento da parte della popolazione interessata, con
vera consultazione, condotta certamente in coordinamento con i Consigli di Circoscrizione,
ma in ogni caso comportante una effettiva comunicazione della proposta e della possibilità
di esprimersi data a tutti i cittadini.
Non sembra sufficiente che un'opera sia stata scelta sulla base di un prestigio
consolidato dell'artista nei circoli piuttosto elitari dell'arte “contemporanea”, né si può
presumere che alla luce di ciò la maggior parte del pubblico riesca a comprenderla ed
apprezzarla.
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Processi decisionali e disattenzione decisionale,
apporto delle conoscenze e dell'inventività
dei cittadini, trasparenza
Processi decisionali ed alta incidenza di disattenzione
Il tema della qualità delle decisioni si intreccia profondamente con quello della
partecipazione. Perché non si tratta solo di una dimensione democratica di auspicabilità
della condivisione, ma proprio della congruità tecnica della decisione, che abbiamo visto
molte volte penalizzata da una insufficiente istruttoria di informazioni e ragionamento,
evitabile o attenuabile con un forte invito al contributo dei cittadini.
Che sia umanamente comprensibile che al di là dei proclami la partecipazione faccia
paura, sia ai politici, sia ai funzionari, soprattutto timore di un sovraccarico di lavoro, non
toglie che il problema sia grande, e crediamo che ne sia chiaro esempio la vicenda
decisionale del sottopasso ferroviario sotto la Dora e della decisione fortunatamente
rientrata di smantellare Porta Nuova.
In quell'occasione l'impulsività decisionale dei vertici unita verosimilmente alla
tendenza dei sottoposti a seguire la corrente senza cercare complicazioni ha causato a nostro
parere un danno grave alla città. Un danno che un'istruttoria decisionale veramente
condivisa avrebbe secondo noi evitato.
Mentre non è troppo difficile vedere le cause di questa disfunzione da superficialità
così frequente, e anche comprendere sul piano umano le difficoltà di percezione dei vari
attori decisionali, è un fatto che ne derivano conseguenze pesanti, e occorre mettere mano
al problema. Non basta certo una esortazione moralistica ai politici di studiare di più sui
vari temi, ed ai funzionari di esprimere con coraggio ogni loro perplessità, occorre elaborare
meccanismi che garantiscano un maggior flusso di informazioni e attività di analisi, anche
in presenza delle ineliminabili debolezza umane nella politica e nella fatica amministrativa
ecc.
Sembrerebbe possibile, anche in attesa di una evoluzione legislativa nazionale, annettere
al Piano Regolatore una normativa di “debat publique” applicabile anche alla scala di
problemi e progetti di non grandi proporzioni, mentre per le grandi opere dovrebbe in teoria
essere operativo il DPCM 10 maggio 2018, n. 76 Regolamento recante modalità di
svolgimento, tipologie e soglie dimensionali delle opere sottoposte a dibattito pubblico
Ma a parte la necessità di introdurre una efficace interlocuzione coi cittadini, ci sembra
da migliorare proprio anche l'interlocuzione interna all'apparato amministrativo e politico
del Comune. Abbiamo avuto più volte la percezione che segmenti operativi
dell'amministrazione in teoria implicati in una iniziativa urbanistica ne siano stati informati
solo a progettazione molto avanzata, con ridotta possibilità di intervenire in modo utile, per
non parlare di una certa cautela nell'interferire in operazioni fortemente volute dai vertici
politici.
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La partecipazione e la qualità dell'ambiente
urbano
Come si diceva, anche a prescindere da una volontà democratica in quanto tale, di
assicurare voce e partecipazione decisionale ai cittadini, è dimostrabile che a Torino
decisioni verticistiche assunte senza adeguata acquisizione di elementi rilevanti e senza
consultazione dei cittadini abbiano condotto a decisioni infelici per la qualità urbana e
almeno in un caso anche per la congruità economica dell'attività amministrativa.
Di una disastrosità non solo ambientale ma appunto macroscopicamente economica è
nostro parere esempio la decisione di fare attraversare la Dora dal passante ferroviario con
un tunnel, affermando di evitare squilibri certo presenti nel precedente progetto, ma
assolutamente risolvibili in vari altri modi, e con la conseguenza di allungare di almeno
quindici anni i tempi di realizzazione del passante e di ripristino del collegamento
ferroviario con la linea Torino-Caselle-Lanzo, con vastissimo arco di disagi conseguenti, ed
un aggravio di costi per la città e per lo Stato di almeno duecento milioni di euro.
Di una scelta contraria alla volontà persino esplicitamente espressa dai cittadini può
essere esempio la distruzione del parco di piazza d'Armi per fare posto ad una desolata
“piazza olimpica” senza che vi fosse una concreta esigenza in rapporto alle Olimpiadi, e di
un progetto di vasta portata redatto senza alcuna vera consultazione è esempio il Parco
Dora, la cui realizzazione rappresenta sì una acquisizione di qualità ambientale rispetto alla
preesistenza industriale, e ci mancherebbe altro, ma con vistoso spreco di possibilità
migliori.
Questi casi, ed altri, sono non solo in rapporto ad una modesta razionalità progettuale
dell'amministrazione cittadina, ma alla rinuncia di tutto un possibile apporto di osservazioni
pertinenti da parte dei cittadini, una considerazione, ripetiamo, che facciamo anche al di
fuori di un dibattito valoriale sulla congruità democratica, ma che poniamo sul piano della
congruità tecnica, del perseguimento di progettualità valida.
E' fondamentale che in futuro questo non si verifichi più, che vi sia vero appello alle
osservazioni più o meno sensate dei cittadini, non certo solo per dare loro il gusto della
partecipazione, ma proprio per raccogliere idee, che poi naturalmente andranno vagliate.
Questa riflessione è particolarmente importante in questo momento, in cui qualunque
amministrazione si troverà a guidare Torino sarà condizionata da questa spiegabilissima ma
in sé confusa parola d'ordine del “fare”.
Fare, sì certamente bisogna “fare”, ma solo facendo bene, mentre vediamo in fondo in
tutte le forze politiche una inequivocabile tendenza a “fare qualcosa che si veda”, certo a
rischio di fare cose inappropriate o persino decisamente dannose, magari a scapito di azioni
poco vistose ma opportune.
E sia nel ragionare su proposititi di un ingombrante vistoso “fare” sia nel vedere cosa ci
possa essere di veramente utile anche se sfortunatamente poco vistoso e mediatico, il
consultare sul serio i cittadini può essere determinante.
Consultare veramente i cittadini vuol dire proiettare davvero pervasivamente la nozione
che si stia chiedendo un loro parere e anche proprio le loro proposte, le loro “invenzioni”,
se ne hanno. Che così possano piovere sul povero comune anche le proposte più
strampalate è evidente, ma non è ragione sufficiente per rinunciare a questo apporto.
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Anzi, possiamo forse dire che proprio adesso che un ricorso sia pure ridotto alla
consultazione dei cittadini, una “piccola partecipazione” esiste, è possibile che emergano da
gruppi relativamente piccoli di cittadini attivi personalità e proposte un po' esuberanti,
mentre cercare di scavare davvero nel buon senso e nell'inventività di quanti più possibile
farebbe saltar fuori, in mezzo a cose inattendibili anche idee decisamente utili.
Insomma, passare dagli attuali borbottii a cose fatte “possibile che non si siano accorti
che.....” ad una partecipazione in tempo reale.
Certo possiamo immaginare il disagio, la fatica del doversi occupare di questo indubbio
aggravio di impegno non tanto per gli amministratori eletti quanto per il personale del
Comune. Ci vorrebbe certo uno sforzo di immaginazione organizzativa, si potrebbe
chiedere la collaborazione di Politecnico ed Università, ma certo in definitiva una soluzione
compatibile con la qualità di vita dei dipendenti comunali si potrebbe trovare.
Mentre dunque sulle modalità organizzative di una molto aumentata e finalmente
significativa “partecipazione”, sul ruolo preminente o collaterale che potrebbero avere i
Consigli di Circoscrizione ecc., c'è da riflettere e studiare, le difficoltà non possono
giustificare la rinuncia alle potenzialità di una vera partecipazione.
La posta in gioco è un patrimonio di intelligenza che normalmente va perfettamente
sprecato. Questo non è certo solo causato da inerzia delle amministrazioni, concorre
moltissimo il fatalismo ed anche la pigrizia dei cittadini, ben compresi quelli
intellettualmente più validi e potenzialmente creativi, ma allestire un buon apparato di
informazione e motivazione sarebbe certamente possibile, smuoverebbe almeno una quota
di questa potenzialità sepolta, e di sicuro almeno un po' di bene lo farebbe.
L'esigenza che Agorà, il quotidiano telematico del
Comune, si potenzi in un vero strumento di
informazione e aperta discussione
Detto quanto potrebbe migliorare le cose una vera partecipazione, la cosa più difficile
sarebbe non tanto allestire strumenti di consultazione-partecipazione, che in parte già
esistono, come sottolinea il Comune, ma indurre una quota significativa di cittadini a
“partecipare”.
Si direbbe che la maggior parte dei cittadini per quanto perplessi e irritati per quello che
non funziona non sembrerebbero disposti a dedicare tempo a pensare per conto loro intorno
a come si potrebbe farlo funzionare.
Ma questa constatazione non giustifica cinismo e rassegnazione sulle prospettive della
partecipazione, riverita a parole, a quattr'occhi derisa. Perché molti più cittadini, se ne
percepissero una possibilità effettiva, si farebbero vivi.
C'è una maggioranza di cittadini che non si rendono conto di avere già con le attuali
normative una possibilità di intervenire sulle vicende generali della città e del loro quartiere
in particolare, ma soprattutto che hanno un'idea molto vaga non solo di quanto non li tocca
direttamente, ma anche di quanto avrà decisamente implicazioni per loro, soprattutto in
ambito di scelte urbanistiche che poi in fase attuativa non sono più modificabili.
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Anche se il Comune produce attualmente una discreta trasparenza “passiva”, nel senso
che molta documentazione è disponibile sul sito, tutta la normativa, piano regolatore ecc., in
modo decisamente più agevole che nella precedente era cartacea, per avere un vero dialogo
produttivo coi cittadini occorrerebbe per così dire andarli a cercare. Anche veramente
sollecitati non certo tutti vorrebbero informarsi, e meno ancora cimentarsi a produrre idee,
ma una minoranza decisamente utile ci sarebbe.
Informare raccontando sinteticamente ma correttamente le realtà e le possibilità,
invitando ad andare a cercare i dettagli sul web, dovrebbe essere compito della stampa
corrente, ma condizionata com'è questa dal dover evitare notizie potenzialmente noiose e
piuttosto concentrarsi sul sensazionale, pena il calo delle vendite, è difficile che si metta a
farlo, per non parlare della ritrosia a pestare piedi autorevoli. Dovrebbe essere il Comune
non solo a garantire la disponibilità di un decente flusso di informazioni, ma in qualche
modo ricordare quotidianamente al pubblico che questa accessibilità a informazioni chiare
c'è, suggerire quotidianamente che esplorarla può essere interessante, e che interessante può
essere chiedersi perché le cose siano fatte in un modo piuttosto che in un altro e farsi vivi
con le proprie osservazioni.
Il campo in cui la città è più penalizzata dalla mancanza di informazione e dal
disinteresse rassegnato dei cittadini è quello delle scelte urbanistiche. Come trasparenza
passiva non c'è male, sul sito del Comune si può trovare molto, ma a costo di faticare
parecchio per trovare e capire. Anche tuffandosi con una certa pazienza in queste
informazioni presenti sul sito, Piano Regolatore, varianti varie, ora come ora manca il
decisivo apporto di una adeguata rappresentazione per immagini, anche solo volumetriche,
di cosa potrebbe sorgere dove, tali da suscitare impressioni più chiare e conseguente
maggiore stimolo ad avanzare osservazioni.
Per produrre questa vera informazione e questo stimolo il Comune, che da molti anni
dispone di un giornale telematico, Agorà, potrebbe riversarvi qualunque quantità e qualità di
informazioni e in particolare, per quanto riguarda l'urbanistica, di immagini.
Naturalmente questo comporterebbe una certa spesa per il potenziamento del personale
impiegato in questo, ma il miglioramento della qualità della partecipazione dei cittadini alla
vita della città varrebbe più che abbondantemente lo sforzo.
Poi non solo dovrebbe poter ospitare opinioni e suggerimenti di ogni genere, anche
fortemente divergenti dagli indirizzi dell'amministrazione, ed è su questo che l'idea
incontrebbe forti ostacoli, ma dovrebbe trovare il modo di farsi cercare e leggere dai
cittadini.
A questo probabilmente gioverebbe la presenza di opinioni varie, oltre alle comunicazioni
oggettive sugli atti amministrativi, ma in particolare per le informazioni sulle previsioni o
sulle ipotesi urbanistiche sarebbe decisiva, come detto prima, una abbondanza di
rappresentazioni iconografiche chiare, che la stampa commerciale lesina per ragioni di
spazio, con inevitabile scarsa comprensibilità, e scarsa cattura dell'interesse.
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